Persona grata è un’espressione latina utilizzata in diplomazia, per l’accettazione di un ambasciatore, mentre nel linguaggio comune è utilizzato il suo contrario, persona non grata.
Persona grata è ora il titolo scelto per una doppia mostra, al Musée national de l’histoire de l’immigration alla Porte Doré a Parigi e al Mac/Val, Museo d’arte contemporanea del Val de Marne a Vitry-sur-Seine, che si sono associati per presentare opere che evocano l’esilio, il viaggio dei migranti, l’accoglienza e l’ostilità (fino al 20 gennaio 2019).

La doppia rassegna prende in prestito il suo titolo da un’opera di Lahouari Mohammed Bakir del 2016, un neon. Nei due luoghi di esposizione, che si sono scambiati i lavori custoditi nelle rispettive collezioni, un’opera, comune ai due siti, accoglie i visitatori: si tratta di U.N. Camouflage del collettivo Société Réaliste, 193 bandiere (tanti sono i paesi dell’Onu), ma irriconoscibili, mascherate da colori mimetici utilizzati dai militari, «l’allegoria di un mondo di libera circolazione dove i territori non esistono più», spiega la filosofa Fabienne Brugère, che ha collaborato alle esposizioni, assieme al suo collega Guillaume Le Blanc e alle due direttrici dei musei, Alexia Fabre per il Mac/Val e Hélène Orain per il Musée national de l’immigration. «Una mostra per scuotere le coscienze», affermano le due curatrici artistiche, per ribattere ai muri, materiali e spirituali, che si alzano sempre di più di fronte ai nuovi sbarchi.

La mostra al Musée de l’immigration inizia proprio dal mare, un cortometraggio di Laura Henno (Koropa), che lavora sui migranti delle Comore e filma un ragazzino che sta diventando trafficante di uomini. Varie opere hanno come soggetto il mare, orizzonte di speranza ma anche tomba che sigilla la vita. Video, sculture, quadri, molte installazioni: sono esposti molti lavori di giovani artisti accanto a nomi noti, Eduardo Arroyo (che è deceduto di recente), Kader Attia, Ben, Mona Hatoum, Pierre Huyghe, Claude Lévêque, Philippe Parreno, Gina Pane, Sarkis.
Le opere interrogano il senso dell’ospitalità, quello che è rimasto – ci sono molte iniziative di accoglienza della società civile (alcune installazioni riguardano la «giungla» di Calais) – e quello che si è perso, sotto i colpi delle politiche della chiusura e della paura. Mona Hatoum, per esempio, di origine palestinese nata a Beirut, che vive in esilio da una quarantina di anni, presenta Suspendu, una foresta di quaranta altalene, che portano ognuna il disegno di una carta geografica, che fa riferimento alle varie nazionalità di origine degli abitanti di Vitry-sur-Seine e ai loro percorsi di migrazione (l’opera è stata realizzata in situ in occasione di una residenza d’artista al Mac/Val nel 2009-10): una geografia instabile, mobile, fuori terra. Movimento verso l’altrove anche per il cileno Enrique Ramirez , che con Voile migrante n.3, incarna la polisemia della vela, qui con una forma che evoca la carta dell’America latina rovesciata, che misura 4,82 metri, riferimento ai 4882 migranti scomparsi nel Mediterraneo nel 2016.