I prodotti e le ricette introdotte dall’Oriente in Europa sono innumerevoli. In fondo, questo movimento da sudest a nordovest sembra presentarsi come la continuazione della cosiddetta rivoluzione neolitica che, all’indomani della conclusione dell’ultima glaciazione, portò genti, strumenti e cibi dall’area anatomico-mesopotamica, culla delle più antiche civiltà, verso l’attuale Europa. Anche alimenti che oggi consideriamo scontati e «nostri», come il grano, sarebbero stati altrimenti sconosciuti in Europa.

IL CAFFÈ di cui non possiamo ormai fare a meno e del quale gli italiani si considerano maestri è originario dell’Etiopia e la sua coltivazione lungo il Mar Rosso è attestata nel 700 d.C. Nel IX secolo si hanno notizie certe del fatto che gli arabi ne bollivano i chicchi ottenendo una bevanda denominata qahwa (che significa «ciò che previene il sonno»). Solo nei secoli successivi, probabilmente in modo casuale, ci si rese conto che i grani preventivamente torrefatti davano risultati migliori. I mercanti arabi però, consci del carattere pregiato delle loro merce, non l’esportavano per paura che le piantagioni proliferassero fuori dal loro controllo. È attraverso il tramite turco, dopo la conquista dell’impero bizantino da parte degli ottomani, che l’Europa conobbe il caffè. I viaggiatori europei nel Vicino Oriente, tornati a casa, parlavano dell’insolita bevanda, ma fino al XVII secolo le occasioni per assaggiarlo rimasero poche. A rompere il monopolio arabo fu Venezia, che nel 1615 portò il primo carico di grani in Italia. Non è un caso, infatti, che il primo caffè italiano sia nato proprio nella città lagunare: si tratta dello storico Florian, entrato in attività nel1683. Già verso la metà del secolo, però, in Inghilterra diversi locali l’avevano preceduto.
NONOSTANTE alcuni lo preferiscano amaro, il caffè si sposa bene con lo zucchero: anch’esso un’acquisizione giunta all’Europa grazie al mondo arabo-musulmano; la canna da zucchero era coltivata sulle rive del Nilo già dal 500 a.C. Nel continente europeo arrivò tuttavia per il tramite della penisola iberica, nella quale gli arabi ne avevano avviato la coltivazione. Ma solo a cavallo tra medioevo ed età moderna lo zucchero sostituirà il dolcificante prima più comune, ossia il miele.

Sempre ai musulmani di Spagna si deve un altro pilastro della nostra alimentazione contemporanea, ossia il riso, che aveva viaggiato dall’estremo Oriente (dove lo si faceva crescere da almeno 5000 anni) fino all’Egitto. Anche se era già conosciuto nella Grecia antica, non lo si coltivava. Furono ancora una volta gli arabi ad iniziarne l’importazione in Spagna e, da lì, se ne avviò la diffusione anche in Italia.
Che dire poi degli agrumi, noti nel mondo romano ma spariti dalle coste del Mediterraneo settentrionale dopo il declino della parte occidentale dell’impero? Furono ancora una volta gli arabi a reintrodurli per il consueto tramite spagnolo e siculo a partire dal X secolo, al pari di pistacchi e zafferano. Pare invece che si debba ai crociati di ritorno in Europa l’importazione di un’altra pregevole novità: le albicocche.

DI FATTO, il mondo arabo-persiano-islamico, per la capacità di spingersi fra i tre continenti allora noti, fungeva spesso da tramite per la circolazione delle merci: materie prime in senso stretto e primarie per i consumi del mondo tra medioevo e prima età moderna. Oro africano, sale del Mediterraneo (del quale Venezia deteneva il monopolio) le pietre preziose asiatiche e tanto altro ancora: segue le loro tracce Alessandro Giraudo in Storie straordinarie delle materie prime (Add Editore, pp. 247, euro 16), un libro di storia culturale degli oggetti, che ne mostra significati, circolazione, commercializzazione. Attraverso le materie prime si ha una storia globale sia per quanto concerne i luoghi, sia per la cronologia; ben oltre i commerci medievali, Giraudo arriva infatti a parlarci di prodotti della nostra contemporaneità: dalla soia all’oppio, dalla torba al carbone.
Fra le «materie prime» troviamo anche il tè, al quale è dedicato uno studio più completo uscito di recente a firma di Linda Reali e intitolato Storie del tè. Monaci e mercanti, regine e avventurieri (Donzelli, pp. 290, euro 25). Non si può che partire dalla Cina e dalla via del tè che collega i primi luoghi di produzione, nel sud dell’impero, con l’India. Ma il tè, ancora più del caffè, ha una storia planetaria: nel mondo asiatico raggiunge il Giappone, l’India, diviene la bevanda dei monaci buddhisti e con loro viaggia ovunque nel continente. Diviene anche la bevanda prediletta dei russi, con i loro samovar sempre in funzione, e poi approda all’Inghilterra: se il tè invade i salotti inglesi, gli inglesi invadono i luoghi di produzione con la Compagnia delle Indie. Ancora prima di arrivare in Europa, però, scrive Linda Reali, era approdato al mondo arabo, che lo preferiva zuccherato e servito in bicchierini piccoli di vetro, come si usa ancora oggi.

SI TORNA DUNQUE a parlare di mondo arabo e della circolazione delle merci, senza dimenticare che insieme con esse viaggiavano anche le idee. Il mondo islamico ha conosciuto grandi intellettuali, e fa piacere vedere che l’editoria italiana non si dimentica di parlarne anche in forme sintetiche, adatte a un pubblico di non soli specialisti, ma comunque ricche di citazioni e riflessioni.
A Jean-Batiste Brenet si deve Averroè l’inquietante. L’Europa e il pensiero arabo (Carocci, 114 pp., 12 euro): non tanto forse un libro sul pensiero di Averroè, il grande medico, filosofo, giurista e commentatore di Aristotele, vissuto nel XII secolo, quando invece sulla sua ricezione in Occidente. L’averroismo nemico della scolastica, presentato come negazione della razionalità individuale, viene riletto dallo storico della filosofia francese alla luce della psicanalisi, che offre un modo di riavvicinarsi, con meno paraocchi, al suo pensiero.

GRANDE CONOSCITORE della cultura islamica, Massimo Campanini scrive un breve ma denso saggio dedicato a Ibn Khaldûn e la Muqaddima. Passato e futuro del mondo arabo (La Vela, pp. 176, euro 15): autore vissuto in un momento di declino del mondo arabo, nonché in quel secolo XIV segnato dal peggioramento climatico e dalla peste nera, Ibn Khaldûn scrisse il Kitab al-‘Ibar (una possente storia universale) preceduta da una introduzione, la Muqaddima, nella quale riflette sui fondamenti del vivere comune, la regalità, le esigenze scientifiche della conoscenza storica, mettendo da parte presupposti di tipo religioso. Accolto con ostilità dai contemporanei a causa della sua libertà di pensiero, misconosciuto in Occidente, comincia a essere riscoperto soltanto nell’Ottocento, e anche allora con una buona dose di incomprensione. Campanini lo restituisce al lettore nell’integralità di un pensiero originale e per certi versi precorritore che merita di essere conosciuto.