Presto o tardi andrà riconosciuto a Geoff Dyer ciò che è di Geoff Dyer. Non tanto la sua qualità letteraria, valore sempre opinabile e soggetto agli umori del tempo, quanto qualcosa di più oggettivo, inerente quel rifiuto del romanzo che ha portato lui e molti altri a ripiegare su una scrittura di genere nuovo o comunque ritenuto nuovo: quel mélange che non è più né vera narrativa né vera saggistica e sfugge a una catalogazione precisa. «Prose letterarie», così le definiva in via provvisoria W.G. Sebald, che di questa tendenza viene considerato il rappresentante esemplare se non l’iniziatore.

E proprio in occasione del decimo anniversario della scomparsa di questo scrittore, ovvero nel 2011, comparve sul New Yorker un articolo che ne indagava l’importanza e dunque la grande influenza che ha esercitato con i suoi «libri ibridi». Venivano fatti esempi concreti, nomi di scrittori che sembrano averne seguite le ombre, incluso quello di Dyer la cui opera – «in parte saggio, in parte diario di viaggio, in parte narrativa – fa talvolta pensare a una variante meno malinconica, più comica (e più inglese) della prosa erratica di Sebald».

Prima di Sebald
Dyer non la prese molto bene o almeno la prese abbastanza male da inviare una piccata precisazione, ricordando di avere scritto The Missing of the Somme (da noi purtroppo ancora inedito) e Per pura rabbia (uscito ora dal Saggiatore, traduzione di Katia Bagnoli, pp. 248, € 25,00) prima che Sebald venisse pubblicato in inglese. Tirò in ballo questi due libri perché immaginava fossero quelli in cui si ravvisava maggiormente l’influenza in questione e pertanto, malgrado la sua ammirazione per Sebald, riteneva di poter rivendicare di avere praticato la scrittura «in parte saggio, in parte diario di viaggio, in parte narrativa, prima che Sebald la inventasse».

Dyer chiudeva in effetti questa frase con un punto esclamativo, forse non tanto per ribadire in modo definitivo un’originalità quanto perché parlare di invenzione era fuori luogo; se proprio si voleva individuare un iniziatore, l’attenzione andava piuttosto rivolta altrove.

Non per niente, in quella stessa breve lettera, Dyer accennava per inciso a un fatto di non poco conto ovvero che aveva scritto Per pura rabbia «nel mezzo di una cronica dipendenza da Bernhard». Allo scrittore austriaco, del resto, è reso un tributo esplicito anche nel libro, collocandolo al culmine di un filone ben preciso della letteratura europea, quello «della nevrastenia, dell’ansia, dell’agitazione e delle lagnanze».

Dyer si è però spinto molto oltre. Ciò di cui ci parla in Per pura rabbia, divagando per oltre duecento pagine, riguarda infatti le difficoltà incontrate nel dare un seguito alla sua vecchia idea di onorare con un saggio lo scrittore che «aveva fatto nascere in me il desiderio di scrivere» e che con Bernhard condividerebbe le ire perpetue, l’inclinazione cronica all’indugio, una misantropia forsennata, un disprezzo nei confronti del proprio paese e dei propri connazionali: D.H. Lawrence.

Nel suo perdere tempo, nel suo infinito procrastinare, nelle mille e spesso futili ragioni che trova per non scrivere il saggio, Dyer non si limita a fare suoi buona parte dei tratti appena menzionati, in particolare l’indecisione su quale stile di vita adottare e il contrariarsi per inezie; concepisce anche una sorta di calco, in bilico tra omaggio e plagio, della Fornace, il cui protagonista è appunto alle prese con un libro che non vedrà mai la luce.

Di quel romanzo tornano sia il tema di fondo, il fallimento quale prodotto di un rinvio estenuato, sia la circolarità viziosa che si fa stile, il ruminare ossessivo che procede per ripetizioni e vie ipotetiche, il perenne vagliare possibilità contrapposte che volge fatalmente in uno stallo tormentoso. Per fare un esempio concreto, quando afferma che lo studio della letteratura uccide tutto ciò che tocca, Dyer evoca di fatto il passaggio della Fornace in cui viene detto che pronunciare la frase di un grande scrittore significa imbrattarla; e questo solo perché non si ha l’autocontrollo per restare in silenzio, «per non dire assolutamente nulla».

Una questione irrilevante
Visto il suo dichiarato e argomentato disprezzo per la scrittura accademica, è lecito domandarsi perché mai Dyer chiami saggio il libro mancato su Lawrence. La contraddizione è tuttavia solo apparente; nasce da esigenze comiche, anch’esse mutuate da Bernhard, ma soprattutto dal fatto che pure il libro mancato della Fornace viene chiamato saggio. Il saggio è dunque il libro impossibile, il libro che ha dignità di esistere solo in fieri, come racconto di un’intenzione. Agli occhi di Dyer, la vita perfetta è quindi quella in cui si presentino costantemente ostacoli che impediscono di fare ciò che idealmente si sarebbe fatto ma che in realtà non si desidera fare.

La sua strada sembra comunque divergere da Bernhard in un punto, là dove Konrad, l’aspirante saggista della Fornace, sostiene che, per via della sua bassezza, la gente è portata a confondere l’opera con chi l’ha scritta, le cui vicende personali non contano nulla. In Per pura rabbia, l’opera di Lawrence è invece assente, appena nominata e mai, neanche alla lontana, sviscerata.
Per contro, Dyer si concentra proprio sulla persona delle scrittore e le tracce che questa ha lasciato: le foto, i luoghi in cui ha vissuto, le lettere.

E con ciò torniamo a Sebald. L’interesse per le vite passate e i loro reperti era anche per lui un motivo centrale e si è manifestato in termini espliciti fin da subito, già in Vertigini, dove Stendhal viene presentato come Henri Beyle e Kafka come il dottor K. In quel libro, segnatamente nella pagina in cui si riassume l’argomento di 1912+1 di Leonardo Sciascia, Sebald lasciava inoltre intendere che le «prose letterarie» non rappresentavano affatto una novità.

Restituire a Dyer quel che è di Dyer non significa allora togliere a Sebald alcunché. Che lui o altri abbiano davvero inventato un certo modo di scrivere è in fondo questione irrilevante e la si potrebbe risolverla con poco, stabilendo che se uno scrittore ha esercitato una maggiore influenza è perché la sua opera è giudicata migliore o appare – come spesso si dice oggi con un aggettivo ridicolo – più necessaria.

Avrebbe più senso chiedersi per quali ragioni un genere letterario finisca per assumere i caratteri di una innovazione alternativa. In un articolo di qualche anno fa, Dyer notava che i libri di Sebald, oltre a evidenziare profonde somiglianze con Bernhard, sembrano sempre postumi: come se soltanto da fantasmi, cessando di essere persone, si diventasse davvero scrittori. È un’osservazione molto acuta.

Dignità di outsider
Forse, nel loro peripatetico indugiare tra saggio, diario di viaggio e narrazione, Dyer e i seguaci più o meno presunti di Sebald si pensano anche loro postumi, esemplari di una specie ormai pressoché irrilevante e dunque virtualmente estinta. Se così fosse, questo farsi fantasmi, questo lamentoso girare attorno a un vuoto, a una mancanza, a un fallimento, ci appare come l’ultima delle risorse, avendo il tempo presente sottratto all’arte e alla letteratura, ma in fondo anche alla vita stessa, la dignità di essere marginali o diversi o esiliati, di stare al mondo come outsider.