Quanto durerà il governo? «Il tempo che avremo a disposizione». La squadra dei sottosegretari – ieri sono arrivate le nomine – è una fotocopia, il suo è un Renzi bis? «Accetto la critica, ma rivendico la continuità». Non poteva almeno depennare Maria Elena Boschi, il simbolo della riforma bocciata dalla valanga referendaria? «Potete non crederci, le ho chiesto io di restare». Il governo convocherà i referendum sul lavoro se la Consulta li ammetterà? «Lei mi vuole portare troppo avanti. Vedremo». Comunque i voucher «non sono il virus che semina il lavoro nero, ma bisogna correggere gli abusi in tempi rapidi». L’unica volta che il premier dice una cosa precisa però è medaglia per la serietà. Parlando di tasse: «Non sono in grado di fare un discorso serio oggi sulla riduzione dell’Irpef».

Il premier Paolo Gentiloni alla prima – unica? – conferenza stampa di fine d’anno si dimostra subito un pattinatore esperto. Volteggia sulle domande, scivola su quelle insistenti, piroetta sulle impertinenti, inizia una diagonale che promette di arrivare a una notizia e invece poi la spegne, la rallenta, dissolvenza. Risponde mille volte con pazienza sulla legge elettorale, la chiave della legislatura: «Il governo farà il facilitatore della discussione tra partiti e parlamento». Come? Non si sa. Però non si può dire che si sottragga ai cronisti. Per la prima volta, nota il presidente dell’ordine dei giornalisti Enzo Jacopino, un premier risponde a 35 domande dei cronisti parlamentari, un record. Ma in realtà il record è alla rovescia.

Per 35 volte riesce a non rispondere. Tiene un diplomatico equilibrio sul conflitto fra Israele e Palestina. E sul nuovo presidente Usa Donald Trump. Sempre senza arroganza, anzi con umiltà, persino eleganza. Come quando si schermisce parlando di terrorismo: «Potremmo discutere se si tratta di radicalizzazione dell’Islam o islamizzazione del radicalismo», dice citando la dotta polemica fra Oliver Roy e Jill Kepel su Le Monde, «ma la mia opinione non rileva». Il suo è solo, ripete più volte «un governo di servizio».

E’ l’esatto opposto – antropologico, umano, culturale, linguistico – di Renzi. Anzi tutta la conferenza è un garbato funerale del renzismo, che però è ancora vivo e convitato di pietra. A differenza dell’anno scorso, stavolta alla sala dei gruppi parlamentari non ci sono slide, non ci sono gufi a fumetti che recitano a slogan i successi del governo, un mezzo insulto per gli astanti.

Il Renzishow è finito, chissà se tornerà. Gentiloni però cita l’ex premier ogni volta che può, forse per non essere sospettato di avere grilli per la testa, leggasi velleità di governo. Ammette la continuità senza considerarla – come invece fa mezzo paese – un marchio d’infamia: «Proseguiròsulla strada delle riforme, non abbiamo finito né scherzato». Con il predecessore è in profonda sintonia: «Fra noi da 15 anni c’è stima e grande collaborazione». Non nega, e come potrebbe, che le sue sorti siano legate ai capricci di lui: «Renzi è il segretario del Pd, è il leader del partito di maggioranza relativa», «cercherò di tenere il governo al riparo dalle dinamiche del Pd ma non vivo sulla luna, ci saranno riflessi».

ll cuore del messaggio è qui. Gentiloni si muove con insospettabile sapienza democristiana fra la lettera di dimissioni in bianco simbolicamente consegnata a Renzi al momento dell’accettazione dell’incarico, e l’obbedienza formale alle istituzioni che prevedono invece che sia il presidente della Repubblica a sciogliere le camere, ove la maggioranza venisse meno. Renzi starà ascoltando? «Spero di no, spero che si riposi almeno ancora qualche giorno», risponde, come si augurasse un ritorno in scena del suo datore politico. Ma forse è solo un modo per non insospettire il giovane segretario con velleità di rivincita.

Nel frattempo Renzi con i suoi si vanta di non ascoltare: obiettivo della giornata una pista «nera» della Val Gardena. Ma non è vero: guarda la conferenza in tv. La situazione lo preoccupa, i suoi piani di «elezioni subito» stanno saltando per manifesta incompatibilità con il principio di realtà. Ma lui non molla. Dunque non lascerà l’Italia per Capodanno, riunirà la nuova segreteria dopo la Befana, poi il 21 gennaio ci sarà l’iniziativa pubblica del rilancio del Pd. Che sia l’anniversario della nascita del partito comunista ormai non smuove i precordi a nessuno.

L’ex premier si è ficcato in testa un timing che prevede le elezioni a giugno, ovvero lo scioglimento delle camere ad aprile. «Se si andasse al voto anticipato il governo avrebbe ancora 15 settimane di vita. Un governo di questa brevità sarebbe utile al paese?», chiede l’inviato parlamentare della Stampa. La risposta di Gentiloni è un capolavoro d’altri tempi: «I governi per definizione non hanno scadenza e per definizione non si tengono in vita artificialmente se non riescono a fare bene il suo lavoro». Dunque l’Italia presiederebbe il G7 di Taormina a fine maggio con un governo già morto? Difficile. Le opposizioni si scatenano, «per Gentiloni il referendum non c’è mai stato». Ma l’elenco delle controindicazioni al voto anticipato si allunga ogni giorno. Gentiloni ne è consapevole. Ma finge di non dare peso. O di non aver sentito la domanda.