Domani la Commissione europea pubblicherà le «Previsioni economiche d’inverno». Per l’Italia, che rischia forte una procedura d’infrazione che porterebbe al commissariamento di fatto e forse persino a qualcosa di più grave, non sarà il giorno del verdetto finale. Però sarà probabilmente un test per capire quanto alta è già la febbre, sia perché il documento potrebbe contenere passaggi specifici dedicati alla situazione italiana, sia perché l’argomento dovrebbe venire affrontato comunque dal commissario all’Economia Moscovici in conferenza stampa.

Nelle «Previsioni» non verranno contate le correzioni alla legge di Bilancio promesse da Padoan ma avversate da Renzi. Di conseguenza ci si troverà di fronte a quella «deviazione significativa» dalla tabella di marcia fissata dal Fiscal Compact, al netto dei margini di flessibilità già concessi per le emergenze straordinarie, che la Commissione aveva in realtà denunciato subito dopo il varo della legge di Bilancio, però sottovoce e rinviando ogni decisione per non rendere ancora più difficile la sfida referendaria di Renzi.

 

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La decisione sul come reagire a quella «deviazione» verrà presa solo il 22 febbraio con la pubblicazione del «Rapporto sul debito». Il momento della verità sarà quello. Nelle tolde di comando delle scelte europee, cioè a Bruxelles e Berlino, si fronteggiano due partiti, entrambi forniti di validi argomenti tecnici. Il presidente della Commissione Juncker, Moscovici, il presidente della Bce Draghi e la stessa cancelliera Merkel vorrebbero evitare l’innesco di una spirale che finirebbe per travolgere l’Italia. Possono mettere in campo una serie di risultati positivi ottenuti da Roma: il saldo primario positivo, la riduzione del debito al netto degli interessi, il varo di alcune delle riforme dettate dall’Europa.

Il vicepresidente della Commissione Dombrovskis, il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble e il presidente della Bundesbank Weidmann sono di parere opposto. Ritengono che all’Italia sia stato concesso anche troppo, con margini di flessibilità che nel complesso hanno raggiunto in due anni i 26 miliardi, e che lo stato dei conti renda impossibile anche solo avvicinarsi all’agenda di rientro dal debito fissata dal Fiscal Compact e inserita addirittura nella Costituzione italiana. Dunque vogliono procedere con una procedura d’infrazione pesante, viatico al commissariamento di fatto e probabilmente anche all’intimazione di vendere qualche gioiello di famiglia, in concreto alcuni dei principali asset pubblici.

Anche se entrambe le fazioni sciorineranno colonne di cifre, si tratterà di una decisione politica, non economica, condizionata dal più ampio scontro all’ultimo sangue in atto a Bruxelles tra il partito di Schaeuble e quello di Mario Draghi. Proprio perché la scelta sarà politica molto più che economica, le colombe europee chiedono al governo italiano un gesto che li aiuti a fronteggiare l’arrembaggio dei duri: il varo di alcune delle misure promesse prima del 22 febbraio, in tempo utile per poter essere calate sul tavolo a riprova della serietà e della buona volontà di Roma.

In tempi normali l’esecutivo si affretterebbe a procedere con misure impopolari ma non dolorosissime come l’aumento delle accise sulla benzina e sui tabacchi. Ma questi in Italia non sono tempi normali e il segretario del principale partito di governo non sembra affatto essersi rimangiato la decisione estrema di mettersi di mezzo. Renzi ha ordinato a 39 deputati fedelissimi di presentare la mozione contro l’aumento delle accise, avrebbe chiamato Padoan per chiedergli di rinunciare a una manovra economica in contrasto con l’impostazione di fondo del governo Renzi, ha «invitato» il ministro dell’Economia alla già tesissima direzione Pd convocata per domani. Impossibile dire se nelle intenzioni dell’ex premier l’invito sia un gesto di conciliazione o il prologo di una specie di processo. Nel secondo caso il governo di Gentiloni e Padoan si troverebbe costretto a scegliere tra una rottura clamorosa e pericolosa con l’Ue e quella altrettanto minacciosa con Renzi.