Paolo Gentiloni Silveri, 62 anni, romano, laureato in Scienze politiche, sposato con Emanuela Mauro, ascendenze in una nobile famiglia delle Marche che ha al suo attivo il famoso «Patto Gentiloni» del 1913 (l’accordo voluto da Giovanni Giolitti tra cattolici e liberali), ministro degli Esteri, deve aver apprezzato l’appello a favore del Sì nel referendum costituzionale firmato da un gruppo di ex militanti del ’68.

Molti di coloro che lo hanno promosso facevano parte del Movimento lavoratori per il socialismo (Mls, ex Movimento studentesco) guidato da Mario Capanna, Salvatore Toscano e Luca Cafiero che aveva a Milano il proprio punto di forza.

È infatti in quella organizzazione che Gentiloni fa il suo apprendistato politico, dopo un periodo di formazione cattolica e le manifestazioni nel Liceo Tasso, uno dei centri romani della contestazione.

Nel 1980, quando Mls e Pdup avviano l’unificazione, Gentiloni approda nella redazione di Pace e Guerra, mensile prima del Centro per l’unità della sinistra promosso da Lucio Magri e Claudio Napoleoni e poi settimanale diretto da Michelangelo Notarianni.

Quella rivista è una palestra di dibattito per i settori della sinistra che tentano di riannodare i fili unitari spezzati dal craxismo nascente (tra i più attivi, in una prima fase, c’erano pure Stefano Rodotà e Massimo Cacciari). In quella redazione, Gentiloni diventa responsabile del settore esteri, vocazione e interesse che abbandonerà per molti anni ma che ritroverà come alla Farnesina.

Conclusa l’esperienza di Pace e Guerra, nel 1984 prosegue nella sua esperienza giornalistica andando a dirigere per otto anni il mensile Nuova ecologia che faceva riferimento a Legambiente. Poi passa a l’Espresso.

Nel 1993 diventa tra i principali collaboratori di Francesco Rutelli, eletto nel frattempo sindaco di Roma come esponente dei Verdi appoggiato dal centrosinistra. Ne diventa portavoce, ghostwriter, dirigendo per un periodo l’ufficio stampa del Comune. La sua esperienza diventa interamente politica e non più giornalistica quando è nominato da Rutelli assessore al giubileo e al turismo, incarico delicato che ricopre ricevendo molte lodi.

Successivamente diventa tra i dirigenti di spicco della Margherita, l’organizzazione fondata da Rutelli, dove confluiranno pezzi importanti del Partito popolare di Mino Martinazzoli che aveva tentato di riorganizzare l’area cattolica dopo lo scioglimento della Dc.

Eletto alla Camera per la prima volta nel 2001, Gentiloni è stato presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza Rai nel 2005-06, dopo aver diretto il dipartimento comunicazione della Margherita. Durante il governo Prodi (2006-08), è nominato ministro delle Telecomunicazioni.

Le attuali fortune del ministro degli Esteri, ora tra i papabili premier se Matteo Renzi non fosse reincaricato dal presidente Mattarella, sono datate 2009, quando decide di non seguire Rutelli nella polemica verso il Pd che aveva concorso a fondare con l’unificazione Ds-Margherita. Per l’ex sindaco di Roma, contrario all’adesione del Pd al Partito del socialismo, il nuovo partito stava sbandando pericolosamente a sinistra (previsione del tutto sbagliata, una cantonata). Rutelli fonderà l’Alleanza per l’Italia (Api) che non avrà grandi fortune, ma i suoi principali collaboratori – tra cui Gentiloni – resteranno nel Pd.

L’attuale responsabile della Farnesina, dopo aver sostenuto la breve segreteria del Pd di Dario Franceschini seguita alle dimissioni di Walter Veltroni, sarà fin dalle primarie tra i grandi sponsor della segreteria Renzi, di cui diventerà uno dei consiglieri più ascoltati sia nell’attività di governo che in quella di partito.

In una carriera tutta in ascesa, Gentiloni conosce una battuta di arresto e più di una amarezza nel 2012, quando si candida nelle primarie che devono scegliere il candidato a sindaco di Roma del centrosinistra: arriverà solo terzo, dietro Ignazio Marino e David Sassoli.

La sua esposizione in quella competizione interna al Pd verrà però ripagata da Renzi diventato segretario e premier.

Nel 2014 lo chiama a far parte del governo. Durante il suo dicastero, in due occasioni è «corretto» da Renzi: quando annuncia un possibile impegno militare in Libia e quando dà il via libera al voto di astensione dell’Italia in sede Unesco su una mozione riguardante i luoghi santi di Gerusalemme e le responsabilità d’Israele. «Decisione allucinante», aveva subito dichiarato Renzi.

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