Chi è la gente di Idomeni? Non basta dire afghani, pakistani, siriani e iracheni. La gente di Idomeni è Jalil, un giovane con vecchie scarpe da trekking che cammina nel fango contro pioggia e freddo. Si lascia alle spalle bombe che piovono dal cielo, mine che esplodono sotto i piedi, proiettili che rompono il silenzio dell’aria. È Afshan, con i piccoli Sitarah, Tanaz e Jamshid al seguito, che cerca disperatamente una coperta. È Burhan un bambino di poco più di cinque anni che beve dalle pozzanghere che ancora non diventano marroni. Vicino a quell’acqua le mosche rabbiose lo invadono.

La distesa di piccole tende colorate punteggia i binari che attraversano Idomeni, parte della lunga ferrovia Salonicco-Skopje-Belgrado. Più che un punto di accoglienza sembra un ammasso informe di squallidi rifugi frettolosamente eretti, circondati da palizzate e folli rotoli di filo spinato che definiscono il confine con la Macedonia.

Gli accampamenti sprofondano nel fango e nell’acqua durante le violenti piogge che sembrano inghiottire ogni oggetto. Si vedono solo corti canali scavati con le mani o con un bastone di legno davanti all’ingresso di ogni tenda «Così si evita all’acqua di entrare dentro», ci dice Afshan in dari. «Sono in cerca di una coperta perché la scorsa notte l’unica che avevo si è bagnata con l’acqua che è entrata nella tenda. E con la pioggia non c’è nessuna speranza che oggi si asciughi».

E aggiunge: «Le tende non sono impermeabili». Poi inizia a raccontarci la sua storia. Una storia tra tante. Un nome, un viso, posti sconosciuti di vecchie rotte che sembravano abbandonate. Nella tenda si toglie il velo, ha lunghi capelli neri, la sua carnagione è scura e le sue mani spaccate dal freddo. «Arrivo da Khash Rod, si trova a sud-ovest dell’Afghanistan. Ho iniziato il mio viaggio tre mesi fa. Si entra illegalmente in Iran dalle sezioni delle frontiere meno custodite delle province meridionali e si viaggia spesso a piedi fino alla città sciita di Qom. A circa cinque chilometri dal confine tra Iran e Turchia, ti fanno scendere dal camion e ti lasciano lì. Si continua a piedi e si aspetta la notte per attraversare il confine, perché gli iraniani sparano. E i corpi senza vita rimangono lì. Senza preghiere, né notizie. Se si riesce ad entrare in Turchia, nella disperazione più totale, si hanno un paio di minuti per decidere se si vuole rischiare la propria vita su un gommone. Ci si imbarca per le isole greche di Kos o Lesbo, ormai quasi più senza pensare. Io sono arrivata a Lesbo, partendo dal porto turco di Izmir». Afshan si ferma e in quel momento sembra sentirsi solo il tintinnio del suo tasbeeh in mano. «Pensavo fossi arrivata. Non so come sono finita qui».

Dopo settimane di cammino e 7.000 dollari spesi, si ritrova intrappolata con i suoi tre figli in un posto che non le permette né di andare avanti, né di tornare indietro. «Nel distretto di Nimruz a dettare legge sono ancora i talebani, nonostante le forze armate dispiegate sulla terra. Mia figlia non può andare a scuola», cerca di farci capire.

E sì, c’è chi lascia casa, famiglia e vita perché la propria figlia non è libera di andare a scuola.

Al di là di un fossato disseminato di coperte, bottiglie di plastica e vestiti c’è la Macedonia, il piccolo stato balcanico glorificato a via di transito. Solo cinque minuti di treno e da Idomeni si è a Gevgelija, in Macedonia. Ma adesso è tutto proibito. Uomini in divisa, armati di lacrimogeni e proiettili di gomma sono diventati i custodi del perimetro dei Balcani, accanto agli Humvee scintillanti.
La rotta dei Balcani è ormai bloccata a Evzonoi, in Grecia, al confine meridionale della Macedonia, a Preševo in Serbia e a Šid alle porte della Croazia. Bloccata perfino prima di iniziare a Polykastro, a 25 km dal valico ufficiale di Idomeni.

Senza documenti si ritorna al punto uno. Cioè in Grecia. Sono 30 mila i rifugiati ora bloccati nel Paese. A Idomeni 14 mila rifugiati aspettano in uno scenario da incubo un segno dall’Europa, mentre i funzionari in preda al panico, con l’appoggio dell’esercito, lavorano ogni giorno per dar da bere e da mangiare a chi fugge da guerra, povertà, disoccupazione, morte, dolore.

Più di un milione di rifugiati hanno attraversato l’Europa nel 2015 e già 153.500 si sono riversati in Grecia via mare da inizio anno. Da Idomeni, trasferiti in questi giorni i primi mille rifugiati in campi nel nord della Grecia.

Dovuti alle scadenti condizioni igieniche a Idomeni, i primi casi di epatite A non sono tardati ad arrivare. La malattia si è diffusa nel campo, dove c’è poca acqua e dove ci sono lunghe code per usufruire delle poche strutture igieniche temporanee.

Nella tenda medica debordante di pazienti, donne in gravidanza, bambini con tosse, febbre e disidratazione riempiono l’aria. Fuori nel fango la gente si ripara con i lunghi impermeabili verdi, distribuiti nel campo ai più fortunati. Aspettano tutti davanti ai cancelli. E chi sorveglia i rifugiati non è meno prigioniero di loro.

Donne e bambini rimangono seduti su cassette di plastica davanti a una pentola da 500 litri di riso e lenticchie preparate dai volontari ai margini dei binari.