Ognuno di noi conserva gli oggetti a cui tiene di più nella camera da letto. Non so se sia una prassi, di certo è un costume comune. In quella di Mina Gregori, nella bella casa di Firenze, ci sono molti libri, giornali, manoscritti, disseminati un po’ ovunque, sul letto, sui comodini o impilati sul pavimento. Alle pareti sono distribuiti diversi quadri, assieme a una vistosa scultura di Domenico di Paris. Un dipinto, in particolare, colpisce l’attenzione di chi è arrivato fin qui: il Ritratto di padre Vincenzo Balconi di Luigi Miradori detto il Genovesino (c. 1605-1656). Non è l’unica opera che la storica dell’arte possiede dell’estroso pittore, genovese di nascita ma naturalizzato cremonese, che ha dato il titolo alla sua tesi di laurea, discussa all’Università di Bologna con Roberto Longhi nel 1949.
L’attuale, bellissima, mostra monografica di Genovesino Natura e invenzione nella pittura del Seicento a Cremona allestita al Museo Civico «Ala Ponzone» (aperta fino al 6 gennaio 2018) è giustamente dedicata a lei.
Il giorno dell’inaugurazione Mina Gregori si aggirava tra le sale, quasi saltellante. Francesco Frangi l’ha accompagnata in una visita guidata. Lei ascoltava curiosa, ogni tanto interveniva, correggeva, integrava, sempre con osservazioni puntuali sulla pittura e sullo stile.
Tutti allievi di Mina Gregori
Dopo questo lungo preambolo veniamo all’esposizione, curata dal citato Frangi, da Valerio Guazzoni e da Marco Tanzi (catalogo Officina Libraria, euro 29,00), che in qualche modo sono tutti allievi della Gregori (almeno così ha sostenuto lei, interrogata sull’argomento).
La rassegna di Genovesino, la prima che sia mai stata fatta, si articola all’interno dello spazio del museo e prima di raggiungerla bisogna attraversare la pinacoteca. È sempre utile fare un po’ di ripasso dei principali momenti della pittura cremonese, dalla sua età dell’oro (che è il Cinquecento) fino all’inizio della sua decadenza, nel corso del Seicento. Di questo secolo, senza Genovesino, a Cremona, cosa merita di essere ricordato?
La prima sala della mostra vuole suggerire al visitatore qualche riflessione preliminare. La presenza, qui, della Suonatrice di liuto di Palazzo Rosso a Genova riassume le «stagioni della critica» di Genovesino, e più in generale i rovelli, le difficoltà e gli assestamenti che hanno riguardato il campo minato rappresentato dai pittori caravaggeschi nel corso del ventesimo secolo. La Suonatrice ha infatti cambiato numerose casacche, una vera girandola di nomi: da Caravaggio a Orazio Gentileschi, da un caravaggesco nordico tra Ter Brugghen e il Maestro del San Pietro liberato dal carcere, fino all’attribuzione corretta a Genovesino, avanzata da Longhi, nel 1951.
Segue l’incredibile Sacrificio di Isacco di Londra (Colnaghi), un dipinto che riassume in sé l’originalità un po’ balzana del pittore (d’altronde siamo nella zona della «matana del Po»). Ma dove si è mai vista una soluzione compositiva simile? Qui il visitatore è chiamato a capire qualcosa che ancora non ha avuto modo di conoscere. Però rimarrà naturalmente catturato dalle stranezze e dalle eccentricità di un autore che gli risulterà simpatico, sin dal primo istante.
Dalla sala successiva inizia il percorso storico della mostra, che si interroga sulle origini genovesi di Luigi Miradori e sulle sue più antiche testimonianze piacentine, prima del definitivo trasferimento a Cremona, avvenuto poco prima del 1637. Con il San Sebastiano curato da Irene (del Museo dei Beni Culturali Cappuccini di Genova) sfioriamo gli oscuri esordi del pittore, fondati su un’eredità di seconda mano di Caravaggio, toccati più direttamente da personalità come quella di Domenico Fiasella. Intorno a questa opera iniziale si fatica a ricomporre un quadro organico di riferimenti stilistici, quadro che risulta più chiaramente assestato solo a partire dall’Adorazione dei magi della Galleria Nazionale di Parma. Giustamente è stato sottolineato il contatto, avvenuto in circostanze non ancora precisabili, con la tradizione figurativa lombarda, da Francesco del Cairo a Daniele Crespi.
Poi si incontra un lungo corridoio in cui si dipana un’infilata di opere di piccolo formato, tavolette, telette, sempre piene di inventiva e eseguite con molta cura, quasi in punta di pennello. Non si può fare a meno di stazionare davanti alla crepitante Vanitas del Museo Camuno di Breno, dove è raffigurato un teschio sdentato che fa venire i brividi. Gli stessi che deve aver provato Marco Tanzi quando l’ha vista per la prima volta, restituendola, con un tocco di bravura, al nostro Genovesino (per la verità non so come abbia fatto, in assenza delle orecchie «morelliane»).
Nello slargo successivo stacca su tutti il fastoso Ritratto di gentiluomo del Museo di Palazzo d’Arco a Mantova dove la rappresentazione della moda (o come direbbe qualcuno, «il costumismo»), tra i fiocchi colorati annodati alla veste e le soffici piume rosse del cappello, finisce col distogliere lo sguardo dall’aria sovranamente annoiata dell’uomo, che pare osservarci da una distanza siderale.
I mangiatori di ricotta
C’è un curioso dipinto di Genovesino capace di aprire una finestra diretta sulla ricezione della cultura campesca a Cremona, nel corso del Seicento, ovvero la copia, con varianti, dei Mangiatori di ricotta. Si tratta di un’interpretazione, un po’ sopra le righe, del celebre modello di Vincenzo Campi (noto in diversi esemplari). Il pittore decide di schiacciare il pedale dell’acceleratore sull’aspetto caricaturale, rendendo grottesca e ridicola l’allegra compagnia. Per la bocca smodatamente spalancata di uno dei mangiatori di ricotta l’artista si è rifatto, nientemeno, che a una stampa di Jusepe de Ribera (e il catalogo documenta molte di queste dipendenze, da modelli incisi, tratti da Albrecht Dürer, Marcantonio Raimondi, Hendrick Goltzius…).
La mostra esibisce, infine, un numero davvero consistente di opere di destinazione pubblica: le grandi pale d’altare, in prevalenza provenienti dal territorio cremonese. Qui è un progressivo crescendo di intensità barocca, passando dal Miracolo del Beato Bernardo Tolomei (da San Lorenzo), accostato allo spagnolissimo Ritratto di un monaco olivetano della famiglia Pueroni (da una collezione privata), fino alle tavole di Sant’Orsola (da San Marcellino e San Pietro), eccellentemente, e opportunamente, restaurate per l’occasione.
Chiude il percorso l’indimenticabile Strage degli innocenti, da Sant’Imerio. È il quadro che ha dato il volto alla copertina del catalogo ed è quello che il visitatore vedrà per ultimo, portandosi via un pezzo della sfrenata fantasia di Genovesino.
Al termine della mostra, scendendo lo scalone del museo, mi è capitato di rivedere, di spalle, la silhouette della Gregori. Era sola, accomodata su una sedia che qualcuno deve averle recuperato dalla portineria, in attesa che l’autista arrivasse per accompagnarla a casa. Era un’immagine vagamente surreale, anche quando è comparsa una fila di bambini dell’asilo che le è sfilata davanti. La Gregori non ha potuto resistere alla tentazione e con la mano li ha salutati gentilmente.