Quando, eccezionalmente, in Italia si parla di droghe a livello istituzionale o mediatico sembra che il tempo si sia fermato agli anni Novanta: «abuso» e «dipendenza» restano le parole chiave per descrivere un fenomeno che negli anni è radicalmente cambiato nelle sue dimensioni, comportamenti, sostanze e quindi nei rischi, danni e possibilità di governo. Queste mistificazioni linguistiche sono in parte derivate da documenti internazionali e in parte frutto della necessità di creare “emergenze” che, in quanto tali, non può che essere affrontata con leggi d’eccezione. Da 30 anni nessun governo si è dedicato alla valutazione dell’impatto della Testo Unico 309 del 1990.

Il 17 novembre scorso la Ministra Fabiana Dadone è stata audita dalla Commissione Affari sociali della Camera sulla VI Conferenza nazionale sulle Droghe convocata a Genova dopo 12 anni dall’ultimo appuntamento. Gli scambi che sono seguiti hanno segnalato che l’incontro non è conosciuto, nel merito e nella sua costruzione, dall’organo a cui si dovrebbe rivolgere e che i parlamentari, salvo rarissime eccezioni, non s’intendono del tema al centro della riunione.

Perfino l’Onu, che su questi temi non brilla per reattività, ha aperto un dibattito, anche terminologico, riconoscendo implicitamente che le Convenzioni del ‘61, ‘71 e ‘88 non sono più adatte a governare piante e derivati coltivabili e acquistabili da centinaia di milioni di persone pressoché dappertutto. Dalla Sessione Speciale dell’Assemblea Generale del 2016, «flessibilità» e «interpretazione» sono le parole chiave per tentare di gestire il più diffuso fenomeno illecito planetario.

In Italia, la sostanziale assenza di dibattito pubblico sulle droghe ha concorso a cristallizzare gli approcci, e chi ne parla, agli anni più violenti della guerra alle droghe e le sue conseguenti vittime dirette e indirette. Il proibizionismo è rimasto estraneo alla “rottamazione”, all’antipolitica e ai populismi di varia matrice.

Pur nella sua struttura iper-proibizionista e fortemente punitiva, il Testo Unico 309 del 1990 contiene un anticorpo all’irragionevolezza della guerra alla droga di reaganiana memoria: la convocazione di una Conferenza nazionale per «offrire al Parlamento gli strumenti e le informazioni necessarie per cambiare la legislazione antidroga e adottare il nuovo piano d’azione sulle dipendenze». Dai documenti preparatori dell’incontro di Genova è però sparito il cuore del perché l’appuntamento sia stato previsto: raccogliere valutazioni e avanzare proposte «dettate dall’esperienza applicativa».

Dopo tre decenni, o 12 anni, l’esperienza applicativa della 309/90 non può continuare a fare l’economia della devastante, liberticida e criminogena cornice penale che in Italia ingabbia la presenza degli stupefacenti nelle nostre vite. L’impianto normativo della legge ex Iervolino-Vassalli ha rovinato la quotidianità di centinaia di migliaia di persone con perquisizioni, denunce, indagini, procedimenti penali e amministrativi contribuendo strutturalmente al sovraffollamento carcerario per cui l’Italia resta osservata speciale della Corte europea per i diritti umani per trattamenti inumani e degradanti. Oltre un terzo dei detenuti è in carcere per reati connessi alle droghe.

La Ministra Dadone ha ricevuto le deleghe alle “politiche antidroga” a marzo e da subito ha annunciato la lodevole, e lodata, intenzione di convocare la Conferenza; purtroppo, un po’ per la composizione della maggioranza che sostiene il Governo, un po’ per l’inesperienza di alcuni dei coinvolti, ci si è attardati nel tentativo di non escludere nessuno – chi da anni gravita attorno al mondo delle dipendenze con approcci paternalisti o chi è palesemente scollato dalle dinamiche mutevoli di un fenomeno che si adatta con grande velocità al contesto circostante. La sessione inaugurale dell’incontro inizia con l’inno di Mameli e finisce con l’Arcivescovo di Genova, gli esperti dei tavoli tecnici assisteranno come uditori.

Questa impostazione della Conferenza renderà molto difficile, se non impossibile, far emergere proposte significative per “cambiare la legislazione”. Senza una valutazione complessiva dell’impatto della legge quali proposte potranno esser fatte a un Parlamento che non riesce a far progressi neanche sulla coltivazione domestica di quattro piante o sulle attenuanti di pena per fatti di lieve entità legati alle droghe? I tempi ristrettissimi per la plenaria e la selezione degli oratori, prevalentemente istituzionali o para-statali, non consentiranno alcun tipo di confronto di merito.

Secondo il Centro europeo per le droghe e le dipendenze di Lisbona, in Italia circa otto milioni di persone hanno un rapporto abituale con le sostanze illecite – sei con la cannabis – mentre un terzo della popolazione le ha provate almeno una volta nella vita. Le stime del Cnr indicano che il primo incontro con sostanze proibite si abbassa a 11 anni. Se messi a confronto con le decine di migliaia che sviluppano un rapporto problematico, e le oltre 100.000 che si rivolgono ai servizi, questi dati descrivono un contesto che malgrado tutto negli anni ha trovato formule di sostanziale auto-governo. Eppure la Conferenza insiste nel perseguire la promozione di «politiche anti-droga» a fronte del fatto che le sostanze illecite sono ormai diventate un fenomeno culturale di massa.

Se l’analisi e la valutazione del presente sono solo vagamente evocate o auspicate nell’agenda della Conferenza, l’unica proposta articolata di riforma della 309/90 oggi sul piatto, il referendum sulla cannabis, non viene mai menzionato. Sapendo che la Relazione annuale del Governo sulle droghe al Parlamento non viene mai discussa in Commissione o in Aula, quali proposte potranno mai esser inviate al Parlamento da una riunione così congegnata?