È passato un anno. Il potere delle immagini del crollo del Morandi è ancora fisso nella nostra memoria di quella vigilia di ferragosto. Il crollo non è solo fisico ma è il crollo dell’idea di modernità connessa all’idea di Stato. Osservando il vuoto oggi, sembra che non ci sia mai stata quell’incredibile infrastruttura che ci ha fatti sentire moderni, sul finire del boom economico, erede di quella utopia modernista che più volte ha toccato Genova superba e incapace di rialzarsi senza l’aiuto di Stato.

LA CITTÀ DELLO STATO, con la forte presenza dell’Iri e poi delle Acciaierie Riva, dall’Ansaldo che ha costruito nel 1964 la Sopraelevata fino a Fincantieri. Genova, la città del sindaco-tranviere, il socialista Fulvio Cerofolini, senza il quale non avremmo avuto il Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce (1985) né il recupero del porto vecchio di Renzo Piano (1984-1992), ma neanche l’avvio dell’insediamento nel centro storico della Facoltà di Architettura (1990), progettata da Ignazio Gardella.

Una città che ha sempre tenuto insieme tradizione e innovazione oggi è più povera. Povera di lavoro, di idee, progetti e riflessione critica. Il crollo del Morandi ha messo a nudo la separazione che già era in atto tra i vari quartieri della città. Da una parte la popolare Valpolcevera abbandonata al suo destino, con il suo groviglio di infrastrutture, il quartiere la «Diga» (costruita quando l’utopia dell’edificio-città aveva ampiamente dimostrato i suoi limiti), e il resto dei quartieri che non si sono mai interessati ai problemi di questa valle. D’altronde il crollo, come accaduto per la mareggiata dell’ottobre 2018 che ha distrutto il profilo costiero da ponente a levante, non ha generato nessuna riflessione sullo sviluppo futuro di Genova.

In qualsiasi altra situazione la razionalità avrebbe avuto la meglio sulla frenesia e l’emotività, ma l’incompetenza e la scarsa professionalità della classe politica al governo della città e della Regione ha creato un flusso di parole con l’unico obiettivo di dimostrare una presunta efficienza. Il super eroe commissario e sindaco Marco Bucci ha distrutto quello che era rimasto di una politica trentennale di sinistra, senza fare nessuna valutazione qualitativa su cosa salvare e cosa no.

L’importante è rimuovere e distruggere l’immaginario del passato per crearne uno nuovo con una precisa strategia mediatica finalizzata ad anestetizzare la comunità genovese. Così si è chiuso il Museo di Villa Croce per poi riaprirlo senza nessun progetto gestionale, si è chiuso il Museo Lele Luzzati, dedicato al grande scenografo, si lascia agonizzante il Museo della Stampa di Emanuele Pirella ed infine si lascia occupata per due anni la Loggia della Mercanzia, sede degli scambi commerciali nel Quattrocento, con una mostra polpettone sul cinema, gestita da un privato, impedendo di fatto un utilizzo pubblico. Ma soprattutto si racconta alla città, nella comunicazione ossessiva che ha sostituito l’azione politica, che Genova è meravigliosa.

QUESTA È UNA SEMPLIFICAZIONE che nasconde l’agonia della città post crollo, la crisi delle imprese, insieme ai problemi cronici dello spopolamento, e l’incapacità a innovarsi evidenziando l’impoverimento culturale della classe imprenditoriale e politica. In questo anno abbiamo assistito alla spettacolarizzazione della tragedia, culminata con la demolizione del viadotto che richiamava le fontane danzanti delle feste di paese. Una inutile estetizzazione priva di qualsiasi rispetto per le 43 vittime innocenti. Vittime presto dimenticate e sostituite nei media dagli sfollati che hanno visto le loro case essere valutate in misura maggiore rispetto al valore economico reale. Niente di male ma questa stategia elaborata da Bucci e Toti, con la complicità del governo, è stata una operazione demagogica per generare consenso in una zona, la Valpolcevera, amministrata dal giovane Pd Federico Romeo.

I RISULTATI ELETTORALI hanno portato nel quartiere la maggioranza alla Lega, ma con uno scarto minimo dovuto alle promesse di Toti e Bucci per demolire il quartiere della «Diga» con l’aiuto degli Avengers.

La latitanza di un dibatitto pubblico nelle scelte politiche dimostra la completa sordità dell’amministrazione, che si è riversata anche sui beni comuni, ovvero quelle strutture che tramite il federalismo demaniale sono passate al Comune. Tema del dibattito innescato dal gruppo di associazioni culturali confluite nel movimento Fare Cultura, che si è occupato della ex Casa Littoria di Sturla progettata da Luigi Carlo Daneri nel 1938, capolavoro dell’architettura moderna.
Trasferita dal Demanio al Comune nel 2017 (durante la Giunta Doria), a seguito di un programma di valorizzazione svolto con le associazioni di abitanti e il Mibac, per trasformarla in Casa di Quartiere, dopo due anni senza aver attuato la delibera, approvata all’unanimità anche da chi era all’opposizione (la giunta Bucci), viene restituita al Demanio per trasformarla in caserma dei pompieri.

Questo avviene nell’ambito del Decreto sicurezza bis dove l’aumento di organico dei VVFF è stato bocciato, così l’architettura rimarrà un rudere della modernità. In questo modo la città non solo perde un monumento, come carattere identitario di un luogo (tema caro anche al centro destra), ma Sturla non avrà la sua Casa di quartiere. Ma tutto è bellissimo, #genovameravigliosa.