Ai primi di luglio è caduto il ventesimo anniversario del G8 di Genova, l’adunanza dei potenti della terra che avrebbero dovuto tessere strategie e affari e assetti per il nuovo secolo, in una «globalizzazione» appena definita e contestata a Siattle. Quel G8 si trasformò invece in un letterale «bagno di sangue», perché davanti alla sua contestazione da parte di migliaia di giovani arrivati da tutta Italia e da tutta Europa si scatenò una repressione mai vista prima da parte delle forze di polizia, allora sotto il governo di Berlusconi. Una repressione così cieca e violenta da far tenere il respiro a tutto il mondo, scandita dai luoghi entrati tristemente nella storia, perché la violenza vi raggiunse un parossismo inarrestabile, da piazza Alimonda dove un carabiniere fulminò alla testa con un colpo di pistola Carlo Giuliani, 23 anni, e poi la scuola Diaz dove erano ospitati altre centinaia di giovani, e infine Bolzaneto, il carcere dove quegli stessi giovani furono seviziati e massacrati di botte a sangue. Una escalation divenuta tristemente celebre, e tale è rimasta ancora dopo vent’anni.

UN RICORDO che nulla potrà esorcizzare, ma forse anche per tentare di ricomporlo in qualche modo, il Teatro nazionale di Genova ha preso l’iniziativa di una manifestazione teatrale piuttosto corposa, titolo G8 Projekt 2021, Il mondo che abbiamo, che il nuovo direttore dello stabile, Davide Livermore, ha affidato a Andrea Porcheddu, che del teatro è dramaturg (in senso europeo, non in quello nostrano di puro autore di testi). Sono stati così commissionati nuovi testi a 9 autori di diversa nazionalità, rappresentativi di quelle che furono presenti. I testi sono stati poi affidati ad altrettanti registi che hanno creato a loro volta gli ensemble perché gli spettacoli prendessero vita sui due grandi palcoscenici del teatro Ivo Chiesa sede centrale e modernissima dello stabile, e il teatro Gustavo Modena a Sampierdarena. Gli spettacoli a partire già da domenica sono in programmazione fino alla fine ottobre, secondo una scansione facilmente raggiungibile sul sito del teatro.
Ma sabato scorso c’è stata una sorta di anteprima, che nel corso di una sola giornata li ha mostrati tutti, uno in fila all’altro. E l’effetto è stato non solo stupefacente per le dimensioni, ma anche in diversi momenti inquietante e commovente, per la ricchezza di suggestioni che quei fatti sconvolgenti dopo venti anni possono continuare a evocare. Non con la loro «rappresentazione», che ovviamente non c’è, ma per quanto invece possano continuare, dopo vent’anni, a suggestionare e suggerire alla scrittura percorsi e visioni, dato che la realtà, dopo quei fatti sconvolgenti, non ha più potuto essere la stessa. Non solo a Genova, ma in tutti paesi del mondo dove ne è arrivata l’eco, se non il racconto in prima persona di chi vi ha partecipato.
Il livello degli spettacoli che da quell’input sono nati è risultato ovviamente diseguale, come del resto è ovvio anche a seconda del gusto e della sensibilità di ciascuno spettatore. Sicuramente alcuni percorrono la strada di una matura e consapevole contemporaneità espressiva: ad esempio Sherpa di Roland Schimmelpfennig (uno dei più importanti drammaturghi oggi in Germania), cui la regia di Giorgina P. dà geometrica tensione nel racconto incrociato delle incertezze di chi era a Genova per manifestare e chi invece a imporre tesi decise in alto e lontano: un giallo teso e impietoso, con i ruoli che si scambiano e si incrociano attorno al protagonista Gabriele Portoghese, bravo come sempre.

SORPRENDENTE e fresco Il vigneto, del giapponese Toshiro Suzue, con quattro donne intente a coltivare dopo la tragedia un’azienda agricola, scelta di diversità alternativa consapevole rispetto al buio precedente: tra utopia e metafora, e un certo fascino sull’empatia dello spettatore, ben orchestrato dalla regia di Thais Bozano. Una favola con velature alla Hitchcock, ma anche autoironiche, contiene In situ, scritto e diretto da Nathalie Fillon, in cui Viola Graziosi quasi fosse la stessa città di Genova, cerca di riordinare la propria biografia esistenziale, tanto da vedere continuamente attorno a sé l’ombra di Cristoforo Colombo (Graziano Piazza in fluenti e neri panni rinascimentali) ancora in cerca di portare a compimento la propria «impresa» di comprendere la sua città. Altri titoli nascondono dietro la bravura delle interpreti (in questo caso Irene Petris e Alice Torriani, dirette da Thea Dellavalle) e un vago intreccio a posteriori il tentativo di analisi radicale di quella presenza di massa a Genova vent’anni fa: ci prova con Change le monde, trouve la terre il belga Fabrice Murgia.

I GENERI presenti si allargano al musical o anche alla tv, ma sono quelli meno appassionanti. Quello forse in assoluto più coinvolgente è quello che Fausto Paravidino ha scritto, recita e orchestra sulla scena, titolo secco Genova 21.Venti anni fa l’autore/attore aveva scritto, sempre sul G8, Genova 01, e ancor prima, dedicato allo stesso tema, Noccioline. Padroneggia quindi il tema, per averlo anche vissuto sulla propria pelle, ma da consumato attore/autore (nonché sceneggiatore) non ci impone mai certezze o paradigmi: sono i fatti, le memorie, le emozioni a darci un quadro geometricamente preciso di quello che fu. Dentro vi scorre la vita quotidiana e la consapevolezza dell’oggi, ma come da un congegno a orologeria ci strappa risate, emozioni applausi. È stato una sorta di gran finale dell’intera lunga serata. Liberatoria perché ha indicato pericoli e messo in guardia dalle illusioni, e ci ha fatto anche sorridere di mitologie e contraddizioni. Ma senza mai abbassare la guardia della consapevolezza e dell’intelligenza.

UNA NOTAZIONE, ultima e marginale, riguarda invece l’incontro, assai ufficiale, che in mattinata ha dato l’avvio alla visione del progetto. Genova è cambiata in questi venti anni. Non solo per la tragedia del ponte Morandi o per le alluvioni che continuano a colpire il suo territorio. Sono cambiate di colore le amministrazioni, passate in larga parte al centrodestra, dalla regione ai sindaci delle città. Faceva effetto (ma forse anche positivo) sentire gli esponenti di quella politica rallegrarsi di quanto stava per andare in scena, totalmente ignari di quanto stavamo per vedere, e forse anche del potere e del privilegio di ogni arte. È vero, come dice Fausto Paravidino nel proprio racconto, che i poliziotti svelti di mano sono ormai andati in pensione, così come i politici che in qualche caso sono trapassati a miglior vita (a parte «chi è andato a fare il sindaco a Imperia», con precisa allusione a Scajola, venti anni fa ministro proprio dell’interno), ma l’entusiasmo degli oratori suonava sospetto. Anche perché in platea sedevano altri politici più di loro in grado di comprendere e valutare (come l’ex sindaco Pericu, o tra gli spettatori del pomeriggio Cofferati). Così che, quasi a «riequilibrare» la situazione, il disinvolto direttore Livermore, dopo aver fatto un così buon lavoro, si è spinto a un infelice paragone, reso eccessivo proprio dal politicismo, tra Benjamin Britten e Luigi Nono, come fossimo alle corse, o a un quiz tv. Amen.