Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, il testo della prolusione tenuta ieri da Enrico Calamai all’Università di Milano (titolo originale, Genocidio e desaparición: politiche eliminazioniste ieri e oggi) in occasione del conferimento della laurea honoris causa a Estela Carlotto, Yolanda Morán Isais e Vera Vigevani Jarach, madri di desaparecidos che con la loro lotta testimoniano una delle forme più atroci di violazione dei diritti umani del nostro tempo. Calamai è stato Console d’Italia a Buenos Aires negli anni ’70. Durante la dittatura militare ha salvato centinaia di persone che rischiavano di scomparire nel nulla. Tra i suoi libri ricordiamo Niente asilo politico. Recentemente ha fondato il Comitato verità e giustizia per i nuovi desaparecidos del Mediterraneo.

 

 

Si dice che nei primi mesi della II guerra mondiale, nell’apprendere dai servizi d’informazione inglesi della Soluzione Finale avviata dai nazisti, Churchill abbia esclamato: It’s a crime without a name, è un crimine senza nome. Bisognerà in effetti attendere fino al 1944, perché si arrivi alla formulazione del termine genocidio da parte di Raphael Lemkin, un giurista polacco esiliato negli Stati uniti, che aveva a lungo studiato il massacro degli armeni. Con tale parola si intende l’eliminazione, o la tentata eliminazione, della totalità dei membri di una collettività umana, donne vecchi e bambini compresi, per l’unica colpa di appartenere al gruppo preso di mira, indipendentemente dal loro operato.

Ovviamente il fenomeno esisteva fin dall’antichità, ma renderlo verbalizzabile rappresenta un significativo passo avanti nel tentativo di metterlo al bando dalla comunità internazionale. In effetti, nel 1948 seguirà la Convenzione Onu contro il Genocidio, che lo condanna come crimine internazionale, sia pure con la specificazione, estremamente limitante, della sua applicabilità esclusivamente a 4 gruppi sociali: nazionale, etnico, razziale o religioso. Era intenzione del blocco occidentale includere tra le categorie anche i gruppi politici, ma non fu possibile per l’opposizione da parte dell’Unione Sovietica. E sarà proprio tale esclusione a ostacolare l’applicazione della fattispecie a quanto accaduto in Argentina, che rientrerebbe piuttosto nella categoria del politicidio

Conviene in ogni caso tener presente l’esistenza di qualcosa di simile ad una struttura quadrangolare sottostante sia alla Soluzione Finale che a quanto accaduto in Argentina. In primo luogo, l’esistenza nel corpo sociale di una minoranza, con la quale la maggioranza non si identificava: nel caso degli ebrei, un popolo che non si era piegato al potere ideologico e politico del Cristianesimo, nel caso argentino, la componente più generosa della gioventù dell’epoca, impegnata politicamente, che era decisa a portare il Paese verso un sistema democratico e appariva destinata a diventare la classe dirigente del futuro. In secondo luogo, la segretezza con cui vennero studiate, approvate e passate alla fase esecutiva sia la Soluzione Finale che la strategia della desaparición. In terzo luogo l’enormità stessa di quanto programmato, che ne rendeva difficile la comprensione. Da ultimo, ma non ultimo, il ruolo dei media, o più precisamente il silenzio o una sistematica opera di disinformazione, che rendeva possibile l’inconsapevolezza dell’opinione pubblica, isolando o togliendo credibilità a chiunque tentasse un’opera di sensibilizzazione.

 

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Il giorno del golpe, si sarebbe detto che i militari argentini avessero fatto il miracolo di prendere il potere senza spargimento di sangue. Giornalisti e cameramen accorsi a frotte a Buenos Aires come già a Santiago tre anni prima, ne ripartivano convinti di lasciare una città tranquilla, in cui tutto era a posto.

Ci vorrà molto tempo prima che si capisca quanto in realtà stavano facendo i militari argentini, perché in un sistema mediatico mondiale ormai prevalentemente iconografico o televisivo, si dà per scontato che tutto ciò che accade viene rappresentato e che ciò che non viene rappresentato non accade. I morti non si vedevano e quindi non esistevano. E questo spiega anche perché, contrariamente a quanto successo a Santiago, le ambasciate respingessero i richiedenti asilo: la loro presenza, iconicamente rappresentabile, avrebbe evidenziato la caccia all’uomo in corso.

Di fronte al serpeggiare di un pericolo che può colpire tutti, la solidarietà viene meno. La società si sgretola, frantuma, atomizza. I familiari si ritroveranno isolati nel loro strazio quotidiano, ma sarà proprio l’inaccettabilità della sorte toccata a ciascuno di essi ad unirli, sarà proprio a partire dal senso di morte che rischia di travolgerli tutti che daranno vita all’unica forma di opposizione che riesce a sopravvivere. Nell’ostilità generale, bollate perfino di pazze, le madri troveranno la forza per scendere in piazza e con le loro foto appese al collo, con i loro fazzoletti bianchi in testa, riusciranno a rendere mediaticamente visibili i loro figli scomparsi, in una resistenza inflessibile e pacifica insieme, che alla lunga risulterà vincente.

Sono, le madri, la nuova Antigone collettiva che l’arroganza del potere fa emergere dall’indifferenza del coro, impegnate ciascuna di loro per tutti i giovani desaparecidos in quella che finisce per diventare una linea politica avente come pilastri della vita sociale memoria, verità e giustizia.

Gli Stati sanno quello che sta accadendo in Argentina, tutti, compresi l’Italia che ha in quel paese una delle sue più numerose collettività all’estero e il Vaticano che parla in nome di Cristo, ma agisce come l’Unione Sovietica. Si tratta di realpolitik, che spinge ad anteporre la stabilità interna e gli interessi economici e strategici che la promuovono, alla protezione delle vite umane dei non cittadini e quindi non elettori, qualunque sia l’aberrante condotta di un governo con cui è utile avere rapporti.

La verità di quanto portato a termine dai militari argentini, con il silenzio complice degli Stati, verrà a galla dopo la caduta della dittatura. La giovane democrazia argentina, insieme al governo francese, proporrà in sede Nazioni Unite quella che poi diventerà la Convenzione internazionale contro la scomparsa forzata delle persone. Ma pur messa al bando, la desaparición continuerà a riaffiorare dove e quando chi detiene il potere ritiene esservi le condizioni propizie.

 

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Pur tralasciando le vere e proprie zone di guerra, come quella che è stata per anni la Colombia ed è oggi la Siria, si ha notizia di casi di desaparición a Hong Kong e in Cina, in Cecenia, Turchia e in Egitto, dove quella sarebbe stata la sorte riservata al giovane ricercatore Giulio Regeni, se non vi fosse stato un intervento tempestivo, anche se purtroppo tardivo, da parte del governo italiano. E il Messico è caso emblematico di un Paese dell’America Latina in cui la tragedia argentina sembra riproporsi al giorno d’oggi, in una commistione tra malavita organizzata e forze facenti capo allo Stato, come ci ricorda la tragedia del figlio di Yolanda Moran , desaparecido nel 2008, e, tra i tanti altri, il caso dei 42 studenti di Ayotzinapa.

Anche in questo caso, come Vera, come Estela, come le madri e come i familiari dei desaparecidos argentini, la lotta di Yolanda e dell’associazionismo cui essa ha dato vita e dirige scaturisce dalla diretta cognizione del dolore e dalla capacità di dargli un significato trasformandolo in lotta politica, portato avanti non per il proprio caso individuale, ma in nome di tutte le vittime e per porre fine ad una immane tragedia le cui responsabilità ultime vanno ricercate a livello politico. Come ci ricorda Don Ciotti, infatti, le responsabilità fanno sempre capo a uno Stato che rinuncia ad assicurare le condizioni necessarie affinché in qualunque parte del suo territorio la vita umana possa svolgersi nel pieno rispetto della libertà e della dignità ad essa spettanti.

 

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Estela Carlotto

 

Bene ha fatto l’Università di Milano ad attribuire l’importante riconoscimento a difensore dei diritti umani di gigantesca statura come Estela Carlotto, Yolanda Morán e Vera Vigevani, che hanno saputo contrapporsi alla brutalità del potere, resistergli pacificamente ma con tutta la forza, il coraggio e l’intelligenza necessari, quando esso si è spinto fino a scardinare le fondamenta stesse della vita sociale .

Ma non possiamo illuderci che queste tragedie facciano parte del passato o vengano programmate soltanto in aree extraeuropee.

Dai primi anni 2000 i Paesi dell’Unione europea e della Nato hanno incluso l’arrivo in massa di migranti e richiedenti asilo nell’elenco dei pericoli da affrontare, alla pari con terrorismo, proliferazione nucleare e cyberwar, per gli effetti destabilizzanti che possono derivarne. A ben vedere, si tratta di contraccolpi che possono aver luogo soltanto in un contesto neoliberista di drastica e costante riduzione della spesa pubblica, quale quello che stiamo vivendo. Basterebbe cambiare le politiche di bilancio per smorzarli e per soffocare sul nascere eventuali guerre tra poveri.

Ma non è così che agiscono i Paesi dell’Ue e della Nato. Si tenta di risolvere il problema esternalizzando le frontiere e spingendole sempre più a sud, frapponendo normative proibizionistiche che trasformano in res nullius la massa dei disperati che riescono comunque ad arrivare alla sponda sud del Mediterraneo. Non solo, si è costruito un complesso sistema a tenaglia, attraverso il cosiddetto Processo di Rabat sulla sponda occidentale dell’Africa e il processo di Khartoum su quella orientale, di cui fanno parte dittature quali quella eritrea, sudanese, egiziana, i cui governi criminali vengono sostenuti, armati e finanziati affinché blocchino in qualunque modo il flusso dei migranti prima che possano arrivare alle coste mediterranee e diventare percettibili dalla nostra opinione pubblica. E come non ricordare gli accordi di Malta (novembre 2015) , il patto con la Turchia (marzo 2016) , l’accordo-ricatto con l’Afghanistan (ottobre 2016), il succedersi di accordi e memorandum con la Libia fin dai tempi di Gheddafi.

Sappiamo ormai, perché ampiamente documentato, quanto avviene in Libia, che è soltanto un tassello del sistema, possiamo ben immaginare i metodi seguiti dai “ diavoli a cavallo” incaricati in un primo tempo dal governo sudanese del genocidio in Sud Sudan e attualmente di dare la caccia e bloccare costi quello che costi migranti e richiedenti asilo. Si sta mettendo a punto un sistema concentrazionario, sparpagliato ma rispondente a un disegno unitario, in tutto l’enorme bacino africano e mediorientale che fa capo al Mediterraneo, nel quale le torture, i massacri, i trattamenti inumani e degradanti, la riduzione in schiavitù, l’espianto di organi e le esecuzioni sono da tempo all’ordine del giorno e che se non bloccato potrebbe diventare il più perfezionato sistema eliminazionista della storia dell’umanità. Ed è tutto questo a produrre il lavoro sporco dei mercanti di uomini e degli scafisti, che tra l’altro finisce spesso per finanziare il terrorismo, e altro non è che il sintomo di un’immensa tragedia umanitaria scientemente provocata a monte.

Ma non basta. Non possiamo non dirci che è estremamente improbabile che un barcone possa sfuggire ai controlli incrociati continuamente in atto da parte di aerei, droni, satelliti, elicotteri, sofisticate apparecchiature radar, ecc. e che lo stesso accada per i gruppi che si avventurano nella traversata del deserto nella speranza di raggiungere il Mediterraneo o vi sono costretti dopo il respingimento. Non mancano testimonianze ad avvalorare l’ipotesi che i medesimi vengano inquadrati, seguiti fin dall’inizio e lasciati a percorrere fino in fondo il loro calvario, nell’ambito di una strategia di deterrenza finalizzata a minimizzarne il numero, nell’impossibilità di sradicare del tutto il fenomeno. Non mancano testimonianze su gravissime omissioni di soccorso che di certo costituiscono un illecito internazionale.

 

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Continuano a tentare di arrivare perché privi di alternative, in fuga come sono da dittature, terrorismo, catastrofi ecologiche, carestie, miseria estrema e crisi troppo spesso da noi stessi provocate. E allora, ecco che le frontiere vengono spinte sempre più in là, oltre la Libia stessa, in Niger adesso, fino a renderli impercettibili nella tragedia del loro respingimento, invisibili fisicamente e mediaticamente, quindi impensabili e inesistenti perché quod non est in actis, non est in mundo. Ancora una volta, come nell’Europa nazifascista o nell’Argentina dei militari troviamo il quadrangolo sottostante l’attuazione di politiche eliminazioniste: una minoranza, oggetto di pregiudizio sfruttabile politicamente, la segretezza (emblematici in proposito gli accordi a livello di polizia che non debbono venir approvati dal Parlamento), la difficoltà di mettere a fuoco la strategia prescelta e un ondivago sistema mediatico che ci bombarda coll’immagine di un bambino annegato in una spiaggia turca, ma la settimana successiva riduce a trafiletto il naufragio di un barcone con almeno 4 bambini a bordo. Perché nella società dello spettacolo ciò che non fa spettacolo non esiste. Il che spiega anche perché si tenti di delegittimare le ong che accorrono a soccorrere i barconi in pericolo di naufragio: affinché il massacro possa andare avanti senza ostacoli e senza testimoni scomodi.

Si tratta, in una parola, dei desaparecidos dell’Europa opulenta del nuovo millennio, e il riferimento non è retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita nel cono d’ombra reso possibile da qualunque sistema mediatico, specie se a prevalenza iconografico.

C’è, in quanto sta accadendo, qualcosa che rientra nella categoria dell’intollerabilità del diritto ingiusto, secondo la formula elaborata dal giurista tedesco Radbruch al termine della II guerra mondiale.

Siamo ancora una volta di fronte a un crimine senza nome, ma il crescente numero dei morti, 30mila circa dai primi anni 2000, dimostra di per sé, a mio avviso, che si tratta di un crimine di lesa umanità che va avanti da troppo tempo.

Per finire, vorrei citare alcune parole da una recente intervista della neo Senatrice a vita Liliana Segre: «…proseguirò la mia missione di testimone anche in Senato, in un tempo crudele come questo, quando il mare si chiude sopra decine di persone che rimangono ignote, senza nome, come sono state quelle che ho visto io andare al gas…».

È mia speranza che l’Università di Milano e il mondo accademico in generale sappiano approfondire, anche da un punto di vista giuridico, la complessa problematica che ho tentato di abbozzare e fornire agli studenti gli strumenti critici per comprendere e prendere posizione in proposito.