È ancora in prigione l’attivista Paulo Lima, noto come «Galo», arrestato il 28 luglio per la sua partecipazione, quattro giorni prima, all’incendio della statua del bandeirante schiavista e stupratore Borba Gato, nel quartiere Santo Amaro a São Paulo. Il giudice Walter da Silva ha infatti respinto la richiesta di rilascio avanzata dalla difesa, motivando la decisione anche con l’appartenenza di Paulo Lima al movimento di Riders antifascisti.
Una decisione a sfondo politico, dunque, «arbitraria e giuridicamente insostenibile», dal momento che, ha evidenziato il suo avvocato Jacob Filho, l’attivista si era presentato spontaneamente in questura per collaborare alle indagini. «L’autoritarismo non si preoccupa più neanche di simulare un’apparenza di legalità», ha commentato il filosofo e giurista Silvio Almeida, autore del libro «Razzismo strutturale».

È stata invece rilasciata, venerdì, sua moglie Gessica Barbosa, anche lei arrestata malgrado si trovasse a casa con la figlia di 3 anni al momento dell’incendio, appiccato da Galo insieme a un gruppo di militanti che, davanti al monumento in fiamme, avevano esposto uno striscione con la scritta «Rivoluzione periferica – La favela sta arrivando e non sarà carnevale».

Il fuoco ha danneggiato la struttura della statua, che tuttavia è rimasta in piedi e che, ha informato il sindaco di São Paulo Ricardo Nunes, verrà restaurata da un imprenditore che ha voluto restare anonimo. Ma su quanto avvenuto la discussione è apertissima, investendo la questione, mai così attuale in tutto il mondo, della memoria come campo di lotta tra identità ufficiale e identità reale. Era questo, peraltro, lo scopo di Galo, come ha spiegato prima del suo arresto: «Per quanti sostengono la necessità di seguire canali democratici, l’obiettivo dell’azione era quella di aprire un dibattito. Ora le persone decidano se vogliono mantenere una statua di 13 metri di un genocida e stupratore». E di certo il dibattito non è mancato.

«Perché la voce di un imprenditore disposto a finanziare il restauro del monumento vale di più di quella di un gruppo deciso a mettere in discussione questa memoria?», si è chiesta per esempio la docente di Storia dell’Università di Campinas Deborah Neves. «Stiamo rendendo omaggio – ha aggiunto – alla memoria di persone che hanno ucciso, stuprato e raso al suolo interi villaggi indigeni». Perché in effetti questo facevano i bandeirantes, esploratori coloniali dediti a schiavizzare e massacrare al servizio della corona portoghese.

Non per niente, si chiamava «Operazione Bandeirante» il più importante centro di tortura e assassinii della dittatura militare, come ha ricordato il docente di filosofia dell’Università di São Paulo Vladimir Safatle citando la frase di George Orwell «Chi controlla il passato, controlla il futuro». Già nel 1992, all’epoca delle celebrazioni per i 500 anni dall’arrivo nel continente dei colonizzatori europei, gli attacchi ai monumenti avevano iniziato a sfidare in America Latina la memoria ufficiale. Ma è negli ultimi anni, in parallelo con il movimento Black Lives Matter, che la «guerra delle statue» è cresciuta di intensità.

Non a caso, in Cile, i manifestanti hanno preso ripetutamente di mira i monumenti, a cominciare da quello – poi rimosso – al generale Baquedano in Plaza Italia, protagonista di quella guerra contro i mapuche chiamata eufemisticamente «pacificazione dell’Araucanía». E in Colombia, durante la rivolta, grande ripercussione ha avuto l’abbattimento, da parte del popolo Misak, della statua del conquistador spagnolo Sebastián de Belalcázar a Popayán e di quella di un altro genocida, Gonzalo Jiménez de Quesada, a Bogotá.

Mentre in Brasile, la deputata statale Erica Malunguinho, transessuale e nera, aveva già proposto nel 2020 all’Assemblea legislativa di São Paulo la creazione di una commissione incaricata di affrontare la questione dei monumenti agli schiavisti, per esempio rimuovendoli dagli spazi pubblici e collocandoli nei musei. La sua proposta, tuttavia, non ha avuto seguito.