Il liceo femminile di Nostra Signora del Nilo potrebbe sembrare un’oasi di serenità. Immerso nella natura, a due passi dalle sorgenti del grande fiume africano, lontano dai pericoli e dai vizi della capitale del Ruanda, è qui che insegnanti francesi e suore belghe educano all’europea le figlie dell’élite nazionale. Le allieve sono soprattutto Hutu, la comunità che i colonialisti hanno scelto per guidare il paese. Non mancano però anche delle giovani Tutsi che l’immaginario esotico dei coloni bianchi fa discendere dai Faraoni d’Egitto.

Sotto l’apparente quiete della scuola, covano però odii inconfessabili e un desiderio di vendetta che non tarderà ad emergere. I pregiudizi, mescolati alle presunte «virtù razziali» di questo o quel gruppo, evocati apertamente per anni dai padroni europei del Ruanda, prima la Germania e quindi il Belgio, per dividere e controllare la popolazione, hanno plasmato l’identità stessa del paese, preparando il terreno per la violenza. Siamo solo all’inizio degli anni Settanta, ma tutti gli elementi sono già riuniti perché il conflitto tra Hutu e Tutsi si trasformi in una guerra civile strisciante. Le basi di quell’onda di terrore che finirà per scuotere definitivamente il Ruanda poco meno di trent’anni dopo, quando, a partire dall’aprile del 1994 e per circa tre mesi, si assisterà al massacro sistematico di uomini, donne e bambini Tutsi, uccisi da armi da fuoco ma anche a colpi di machete dalle milizie Hutu o da semplici vicini di casa accecati dalla propaganda. Un vero e proprio genocidio che farà oltre 800 mila vittime.

Di etnia Tutsi, nata in Ruanda nel 1956 ma costretta a fuggire con la sua famiglia in Francia nel 1973, per sfuggire alle persecuzioni degli Hutu, Scholastique Mukasonga ha perso 27 membri della sua famiglia nei massacri del 1994.

Già prima del romanzo Nostra Signora del Nilo, pubblicato recentemente nel nostro paese da 66thand2nd (pp. 210, euro 16), con cui ha vinto nel 2012 il prestigioso Prix Renaudot, oltre al Prix Ahmadou Kourouma, ha dedicato gran parte della sua opera al genocidio ruandese: dai romanzi Inyenzi ou les Cafardes e La femme aux pieds nus, quest’ultimo dedicato alla madre uccisa nel 1994, fino alla raccolta di racconti, L’Iguifou. Nouvelles rwaindaises. La scrittrice africana è tra gli ospiti del Salone del libro di Torino dove presenterà Nostra Signora del Nilo insieme a Luca Rastello – oggi, alle ore 13, presso l’Arena Piemonte nell’ambito della rassegna Lingua Madre.

In «Nostra Signora del Nilo» lei conduce il lettore, dapprima con leggerezza e ironia, poi con toni sempre più cupi, verso l’abisso della pulizia etnica. Non siamo però nel 1994, ma all’inizio degli anni Settanta, e il genocidio che verrà è solo annunciato. Perché raccontare l’origine del male e non il suo pieno dispiegarsi?

Perché da un lato è quello il Ruanda che ho conosciuto personalmente. Le giovani protagoniste del romanzo hanno più o meno l’età che avevo io all’epoca in cui sono stata costretta a fuggire dal paese. Dall’altro, perché nell’intreccio tra i pregiudizi alimentati, e in questo caso insegnati a scuola, dagli europei e il primo manifestarsi dell’odio degli Hutu contro i Tutsi, ci sono i veri motivi che hanno condotto al genocidio.

Rispetto ai miei romanzi precedenti in cui ho in parte ricostruito ciò che è accaduto nel 1994, in questo caso ho voluto prendere una certa distanza dai fatti, per concentrarmi sul perché tutto ciò sarebbe accaduto. Così, descrivo l’ipocrisia che regna nel liceo, l’educazione ideologica, intrisa di razzismo, della futura leadership Hutu, i deliri dei ricchi bianchi sulle radici «egizie» delle giovani Tutsi, il sedimentarsi di invidie, pregiudizi e vero e proprio odio.

Nel microcosmo di Nostra Signora del Nilo emergono tutti gli elementi che condurranno poi allo scatenarsi su larga scala della violenza.

Il suo romanzo descrive come gli europei abbiano «inventato» le identità del Ruanda, costruendo un sistema sociale basato sulla gerarchia tra comunità. Sono queste le radici del genocidio?

Senza alcun dubbio. Prima hanno cominciato ad attribuire questa o quella qualità a ciascuna delle comunità del paese, quindi hanno costruito un modello di governo che si basava su tutto ciò. Negli anni Trenta i colonizzatori belgi hanno creato la carta d’identità etnica e per farlo hanno misurato l’estensione del cranio o la lunghezza del naso delle persone. Inoltre hanno stabilito che alle differenze fisiche corrispondevano poi caratteri e culture. Una vera follia!

Le «categorie» di Tutsi, Hutu, Batwa e altri gruppi esistevano già prima dell’inizio del colonialismo, ma servivano solo a definire le comunità in base alle loro attività economiche: gli allevatori, i contadini, i cacciatori e via dicendo. Poi, questa catalogazione sociale è stata stravolta dall’irrompere sulla scena dell’antropologia razzista del XIX secolo che ha fissato queste etichette per sempre in termini di «razza». E la storia del Ruanda è stata tramandata così, perlomeno per un secolo. Gli europei si sono a lungo interessati soprattutto ai Tutsi, contribuendo a far crescere il risentimento tra gli Hutu cui hanno poi affidato il paese. Insomma, hanno creato le condizioni per un odio radicato e una terribile voglia di vendetta.

Mettere l’accento sulle radici coloniali della contrapposizione tra Hutu e Tutsi non rischia di cancellare le colpe di cui si sono macchiati i ruandesi?

Se a monte di tutto c’è il modo in cui gli europei hanno diviso il paese in comunità, non voglio assolutamente cadere nel cliché per cui gli africani, alla fine, non sarebbero mai responsabili della loro sorte. Le colpe del colonialismo non negano né ridimensionano in alcun modo quelle dei ruandesi che hanno assassinato i loro fratelli e le loro sorelle a colpi di machete. Allo stesso modo, non si può dimenticare che il genocidio è stato concepito e programmato dall’élite Hutu, da intellettuali, sacerdoti e ministri che sapevano bene a cosa avrebbero condotto le loro parole incendiarie. Molti di loro sono riusciti a fuggire alla giustizia e vivono ancora protetti dalle autorità in Francia e in Belgio.

Dopo la stagione dei processi e delle condanne per i fatti del 1994, oggi il Ruanda sta procedendo sulla strada di una difficile riconciliazione nazionale. In che modo, raccontare la genesi del genocidio può contribuire a questo percorso?

Ricordare le atrocità che sono state compiute, chi ne sia stato anche materialmente responsabile, credo sia l’unico modo per dare un contributo al pieno ritorno della pace e della giustizia. Di questo sono assolutamente convinta. Perché un popolo si riconcili davvero, c’è prima di tutto bisogno che comprenda fino in fondo perché si è diviso, cosa lo ha condotto fino a quel punto di orrore. Per questo ho concepito il romanzo come uno strumento per spiegare come si fosse progressivamente installato, già negli anni Settanta, quel clima di odio che ha poi condotto al genocidio dei Tutsi. Il mio contributo alla riconciliazione del Ruanda è questo: raccontare tutto, ma davvero tutto. Da dove si è partiti e dove si è arrivati. Solo così potremo un giorno voltare pagina tutti insieme.