Esiste un’alternativa credibile capace di oltrepassare il dilemma tra partecipazione e disimpegno? Tra «felicità pubblica» e «felicità privata»? La questione investe le fondamenta stesse dei sistemi politici e sociali contemporanei che si sono fondati proprio sul presupposto dell’inconciliabilità di queste due dimensioni. Un tema dunque complesso con il quale si confronta Antonio Tursi nel suo ultimo libro Partecipiamo. Tra autorappresentazione dei media e rappresentanza dei partiti (Mimesis, pp. 142, euro 18).

La prospettiva utilizzata da Tursi è quella «mediologica», cioè un approccio che punta ad analizzare i mutamenti della società in rapporto a quelli dei media, riconoscendo la comunicazione mediata – cioè che si avvale di uno strumento tecnologico per realizzare la comunicazione tra esseri umani, generalmente distanti fisicamente tra loro – come una dimensione fondamentale delle società contemporanee e come un indicatore significativo dei cambiamenti culturali che l’attraversano.

Una diffusa tendenza

Secondo Tursi, la partecipazione è innanzitutto da intendersi come capacità di influenzare il processo politico da parte dei governati cioè, per semplicità, dal «popolo». In quanto tale, la partecipazione prima di essere attività organizzata e razionale è volontà di incidere, desiderio di riconoscimento e capacità di influenzare gli altri e il proprio contesto di vita. La tesi centrale del libro è che le categorie e il modello classico di partecipazione politica non riescono più a ricondurre a sintesi tutte quelle spinte partecipative di tipo nuovo che abbiamo oggi di fronte. Il liberalismo classico ha cercato un’alternativa al dilemma felicità pubblica\felicità privata, raccomandando moderazione nei comportamenti politici e risolvendo la partecipazione politica essenzialmente nel momento elettorale. Il socialismo si è invece basato prevalentemente su un’idea più totalizzante di partecipazione, svilendo la sfera privata. In entrambi i casi, il modello di partecipazione che si ha in mente è quello del cittadino informato e razionale che attraverso la discussione concorre a formare le decisioni, la scelta degli eletti o semplicemente l’opinione pubblica. Secondo Tursi questo è un modo limitato di guardare alla voglia diffusa di partecipazione che esisterebbe nelle nostre società.

I media consentono la rappresentazione e la messa in scena delle istituzioni, degli Stati o dei partiti, di tutto ciò che è «sociale» e «collettivo» e che va oltre il singolo individuo concreto. In questo senso, i media non sono soltanto uno strumento per veicolare messaggi e contenuti ma l’insieme di regole, opportunità e vincoli tramite i quali il nostro stesso modo di essere e di pensare si forma: per esempio, l’invenzione della stampa ha favorito l’ascesa della riflessione razionale e dell’introspezione – si legge e si riflette in solitudine, innanzitutto, tra sé e sé -, consentendo quel modello di partecipazione politica basato sulla discussione e lo scambio tra uomini liberi e pensanti, sul quale (teoricamente) si è retta la democrazia liberale sino ad oggi.

Nel mondo contemporaneo si nota una profonda interdipendenza tra l’homo videns nato con la televisione e l’homo digitalis legato al web e agli smartphone. In entrambi i casi viene stimolata una partecipazione più intensa alle vicende del mondo circostante, una partecipazione che si esprime attraverso una diffusa tendenza a prendere la parola, esprimere pensieri e emozioni attraverso i social network; ad alternare e intrecciare il racconto di sé e della propria vita quotidiana, ad immagini, commenti, condivisione di video che hanno come argomento la politica e il dibattito pubblico; i contenuti sviluppati dai mass media e i post scritti dai propri amici e conoscenti.

Strane tentazioni

Così la partecipazione politica nella contemporaneità non può ridursi al momento elettorale o essere giudicata con le categorie della militanza novecentesca; ciò che viene rappresentato in Rete e sui media è una partecipazione emotiva, multimediale, centrata sul singolo individuo ma senz’altro più diffusa, attenta e allargata rispetto a quando l’occuparsi di politica era confinato alla frequentazione (da parte dei pochi) di luoghi fisici specifici (come le sedi di partito, per esempio).

Per Tursi solo se la politica è in grado di prendere atto di questi cambiamenti e di metterli a sistema può davvero salvarsi dalle tentazioni tecnocratiche ed oligarchiche. Allo stesso modo, solo prendendo consapevolezza di sé e di tutte le potenzialità offerte dai nuovi ambienti mediali, il «popolo» può tornare ad incidere sulla politica con mezzi democratici. Il problema, come evidenzia Tursi, è che nel nostro paese non esiste né una teoria né una pratica in grado di confrontarsi con la nuova voglia di partecipazione: da una parte abbiamo la totale incomprensione delle nuove forme rappresentata dall’atteggiamento elitario di D’Alema o da quello novecentesco di Bersani (il web è una «roba strana»); dall’altro, i fenomeni carismatici e populisti di Berlusconi e Grillo.

In alcuni passaggi conclusivi Tursi sembra mostrare maggiore ottimismo nei confronti dell’impostazione renziana: il fatto è che anche in quest’ultimo caso non si intravede la capacità (e forse neanche la volontà) di realizzare quella conciliazione tra voglia diffusa di partecipare e riappropriazione del proprio ambiente di vita e lavoro espresso dalla Rete, e prassi reali della democrazia. La sfida individuata da Tursi deve dunque ancora essere raccolta e non può non passare per il necessario scioglimento del nodo del Partito politico, senza il quale l’effervescenza del web rischia di oscillare tra velleitarismo e riemergere di pulsioni autoritarie.