Creare un Festival Jazz è come piantare un albero. Significa essere un costruttore di futuro. Cortona Jazz ha esordito con la sua prima edizione offrendo diciotto concerti e un laboratorio spalmati dal 27 Aprile al Primo Maggio. Nel programma della manifestazione toscana un ampio ventaglio stilistico e musicisti di diverse generazioni dai “senatori” Ares Tavolazzi, Cocco Cantini, Giancarlo Schiaffini a giovani talentuosi. Tra questi ultimi ha destato impressione il quintetto del sassofonista romano Simone Alessandrini con Riccardo Gola, Federico Pascucci, Riccardo Gambatesa e Antonello Sorrentino. Nella centrale Piazza della Repubblica, davanti al pubblico che ha affollato la bella scalinata del Palazzo Municipale, ha presentato i brani del suo disco Storytellers appena pubblicato da Parco della Musica Records. Un lavoro che inanella piccoli racconti in musica di personaggi della sua città durante gli anni tragici ed eroici della Seconda Guerra Mondiale. Una scrittura limpida ed efficace che rende perfettamente il senso di queste piccole storie di coraggio tra ironia e senso epico. Un concerto che ha coinvolto ed emozionato e che Alessandrini ha dedicato, vista la vicinanza con la Festa della Liberazione, ai tutti i Partigiani.

Un altro eccellente momento è stata la performance del pianista Simone Graziano, a fender rhodes e synth, con il batterista Bernardo Guerra nel chiostro di San Francesco. Un flusso di groove ipnotici e improvvisazioni “liquide”, invenzioni e dialoghi stretti ad alto tasso creativo. Un esempio di come si possa abitare gli spazi storici con i linguaggi della contemporaneità.

Un filo rosso che ha legato tutta la manifestazione secondo una idea di ecologia dei luoghi ben esemplificata dalla scelta dell’impatto minimo sull’ambiente: nessun palco, ambientazioni con sculture in legno, concerti itineranti lungo percorsi da farsi a piedi. Lontano e contro una idea della cultura usa e getta, del consumismo festivaliero. Ci si aggira tra le teche del museo Archeologico per ascoltare le improvvisazioni degli studenti del workshop oppure ci si inerpica lungo le stradine fino a San Antonio per una performance di danza della ballerina Teresa Noronha Feto e i clarinetti di Mirco Mariottini. E di lì alla Fortezza del Girifalco con la sua vista mozzafiato sulla piana e il Lago Trasimeno. Nel monumento cinquecentesco, dopo la performance solitaria en plen air del sassofonista Ohad Talmor, il set travolgente di Turning jewels into Water, duo per l’occasione ampliato al brasiliano Alìpio Neto.

Nella suggestiva sala ricavata nella Cannoniera l’haitiana Val Jeanty e l’indiano Ravish Momin hanno inscenato il loro “folk from nowhere”, come lo definisce quest’ultimo. Infatti la loro performance ha tutti i caratteri della musica popolare, come il senso della ritualità e il coinvolgimento fisico dei partecipanti senza però riferirsi esclusivamente a nessuna tradizione. Una risposta gioiosa all’inganno essenzialista. Musica popolare di nessun luogo e di tutti i luoghi che agisce nella carne viva delle contraddizioni di oggi: musica/identità/confini. Val Jeanty è una sacerdotessa afro-caraibica che utilizza in senso ritmico campionamenti di voci e fa ballare le dita su percussioni elettroniche; Ravish Momin picchia duro sulla batteria elettronica pulsazioni banghra-jazz e funk; Alìpio Neto crea colori con incursioni di piccole percussioni, flauti etnici e sassofoni. Il pubblico ondeggia e si fa catturare in un continuum che parte dall’Africa diasporica, viaggia attraverso la Brooklyn multietnica e polverizza ogni illusoria definizione dei concetti di centro e periferia.