Le donne medico attive sono ormai una maggioranza assoluta che crescerà grazie alle donne iscritte alla facoltà di medicina (mediamente il 70%). A medicina invariante non è ancora chiaro se questo dato ha le caratteristiche di un turn over di genere o se al contrario ha quelle di un fenomeno, quindi di una mutazione, capace di produrre dei cambiamenti.

Due sono le tendenze che vedo: quella che definisco «para-sindacale» rappresentata dall’Osservatorio della Fnomceo (la federazione degli ordini dei medici) e che punta le sue carte giustamente sulla tutela dei diritti delle donne medico (maternità, avanzamenti di carriera, applicazione di leggi esistenti, trasparenza e correttezza nelle nomine e negli incarichi) riferendosi al sistema di regole disponibile; quella che definisco «potenzialmente riformatrice» e che attende, secondo me, di essere organizzata in un pensiero, in una strategia, ma che è diffusa in tante esperienze di donne medico.

E’ inutile dire che i diritti delle donne, come di chiunque, sono una cosa seria e restano una battaglia centrale. Le storie professionali delle donne medico come si può leggere in uno speciale di Quotidiano Sanità. it sono drammatiche e umilianti. Ma il punto è che tutto questo sta avvenendo in un momento in cui la medicina, addirittura come paradigma, è fortemente sollecitata dai cambiamenti epocali a rimettersi in discussione. I medici tutti sono per tante ragioni in crisi, delegittimati e con un sacco di problemi al punto che da anni si parla di «questione medica». E’ inevitabile che la maggioranza delle donne debba prima o poi fare i conti con tale questione, che sarà sempre più la loro questione. E’ ragionevole pensare che per tutelare dei diritti si debba comunque mettere a punto una strategia di cambiamento. A medicina invariante la sola linea «para-sindacale» potrebbe essere paradossalmente funzionale al mantenimento di uno status quo ormai indifendibile. In sostanza diritti e cambiamento dovrebbero procedere insieme anche perché credo difficile poter costruire diritti senza riformare un sistema che fondamentalmente si basa sulla loro storica negazione (anacronistiche organizzazioni del lavoro, concezioni professionali superate, consuetudini date per immodificabili).

E’ in questo punto di incontro tra diritti e cambiamento che i miei interessi culturali si incrociano con quelli delle donne medico. Sono anni che mi batto per un ripensamento della medicina e riconoscere nelle esperienze di molte donne medico dei fermenti riformatori non può che essere incoraggiante. E’ quindi fondamentale che le donne si battano per i loro diritti, tuttavia credo che la costruzione dei diritti,(non solo la loro difesa), deve vedersela con la «questione medica» e che questa a sua volta non può evitare di fare i conti con la «questione medicina». In cosa consiste la tendenza riformatrice che mi sembra di cogliere in molte esperienze femminili? Quali i postulati? Vorrei richiamare come esempio un convegno sul «carcinoma della mammella» nel quale sono intervenuto ponendo tre domande: di cosa stiamo parlando, di carcinoma della mammella o di donna ammalata di carcinoma della mammella? Come dovrei considerare la mammella ammalata, un oggetto quindi un organo o un super oggetto quindi una persona? Se la mammella è un super oggetto come dovrei organizzare la cura?

Volevo dimostrare che la prassi professionale è funzione della scelta ontologica. Quali le risposte? Le donne medico condividevano la necessità di andare oltre l’organo malato e raccontavano che loro già praticavano una idea molto vicina a quella di «super oggetto». Per gli uomini invece sussisteva un approccio all’organo. In quel convegno sembrava vi fosse un’idea maschile della prassi professionale diversa da quella femminile che, per quello che capivo, era sostanzialmente una differenza tra un’idea di dominio sui servizi e sui malati e un’idea relazionale di complementarietà tra i servizi e con i malati. Supponiamo che questa differenza sia plausibile, quali operazioni dovrebbero fare le donne medico per sancire la loro diversità? Per rispondere bisogna tornare «all’ontologia». Essa come è noto si occupa dell’essere, di ciò che è, di quello che esiste. Tutti i ragionamenti della medicina ancora oggi iniziano da una ontologia della malattia naturale, oggettiva, biologica, organicistica, fisica, molecolare, meccanicistica ecc. Le donne medico in quel convegno sul cancro alla mammella, andavano oltre l’organo cambiando le premesse ontologiche del malato fino a cambiare il “genere” del malato e quindi il tipo di relazione terapeutica. Vorrei ricordare che per le nostre lingue madri i generi erano tre: maschile, femminile e neutro. Il genere neutro designava tutti quei nomi, né maschili né femminili, del mondo delle cose e degli oggetti. Se la malattia coincide con l’organo, il genere più adatto a significarla è quello neutro. Per la medicina ancora oggi tanto la malattia che l’organo e quindi il malato appartengono al genere neutro. Se invece la malattia coincidesse con la persona, il genere più adatto a denotarla dovrebbe essere quello «umano». Per un clinico non è la stessa cosa rapportarsi con un «genere neutro» o con un «umano». Nel primo caso prevarrà una epistemologia dell’oggetto, avremo una «disparità di genere» per cui si avrà una conoscenza solo biologica. Nel secondo caso prevarrà una epistemologia del soggetto, avremo una diversa relazione con il malato, quindi una “parità di genere” e la conoscenza sarà biologica e sovra biologica fino ad includere l’opinione del malato.

La conseguenza sul piano organizzativo sarà che nel primo caso avremo una organizzazione divisa in diversi servizi , nel secondo caso un’organizzazione sanitaria integrata. In ragione del rapporto stretto tra ontologia e epistemologia, quelle donne medico che preferiscono l’ontologia della persona a quella dell’organo di fatto ridiscutono un certo tipo di conoscenza clinica e un certo tipo di organizzazione sanitaria. Ma perché tutto questo è importante ai fini della cura? Se fino ad oggi per conoscere la malattia la scienza ha ridotto ontologicamente la persona a sostanza vivente ora si tratta di contro ridurre la sostanza vivente a persona. Quando certe donne medico propongono di partire dalla persona malata non fanno altro che ri-genera-re ontologicamente il malato che per ragioni scientifiche è stato de-genera-to cioè ridotto a genere neutro quindi ad oggetto. Questo è un cambiamento riformatore vero che obbliga a ridiscutere il metodo della conoscenza dal momento che in medicina la riduzione del malato ad organo è un metodo di conoscenza .

Ma in pratica? La risposta delle donne medico è «relazione» quale modo diverso di conoscere il malato e non come una banale teoria dell’amabilità. In tanti a proposito di donne medico sottolineano il valore dell’indole, io preferisco pensare a certe donne con una moderna coscienza della complessità, che si può conoscere solo con delle relazioni multiple. Per comprendere a fondo il significato di relazione, ricordo che la conoscenza clinica è una «conoscenza irrelata» che non si basa sulle relazioni ma sul ri-conoscimento dei sintomi, quindi primariamente sull’osservazione. Organizzare relazioni quindi è un atto di riforma importante che cambia l’organizzazione dei servizi e le prassi professionali accrescendo le qualità delle cure e diminuendone i costi. Ciò mi porta a credere che se le donne medico che già praticano questi nuovi approcci diventassero culturalmente una «maggioranza nella maggioranza», cioè un progetto,allora è probabile che anziché avere un semplice turn over si potrebbe avere un «fenomeno».