«Quando ho preso il potere come leader di un gruppo rivoluzionario, mi sono sentito come se mi fosse stata affidata una famiglia depredata o un’impresa fallita da gestire».
Non poteva che essere così. Nella primavera del 1961, quando le forze armate sud-coreane guidano un golpe e il generale Park Chung-hee diventa l’uomo forte di Seul, la Corea è allo sbando. All’inizio del secolo, l’occupazione giapponese aveva cercato di annullare la stessa identità nazionale, arrivando a proibire l’uso della lingua coreana e deportando dalla penisola decine di migliaia di lavoratori per alimentare il sogno bellico del Giappone imperiale.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, però, l’illusione di una Corea libera e indipendente dura poco: prima con la spartizione della penisola tra Stati Uniti e Unione Sovietica e poi, nel 1950, con lo scoppio della guerra inter-coreana. Alla firma dell’armistizio, dopo tre anni di devastanti combattimenti, la Corea del Sud è ridotta in macerie.

Quella che è oggi l’undicesima economia al mondo e uno dei poli d’eccellenza per l’innovazione, era un paese alla fame e il cui reddito medio si aggirava sui 70 dollari l’anno. Incapace di migliorare la situazione economica, il Governo di Seul era anche politicamente fragilissimo.

A poco servivano gli aiuti che dagli Stati Uniti piovevano sulla Corea del Sud, che anzi alimentavano corruzione e gonfiavano le tasche di poche famiglie privilegiate. Negli anni successivi, però, sarà proprio questo embrione di capitalismo familiare a costituire l’ossatura del miracolo economico coreano. Il generale Park Chung-hee, classe 1917, era stato cadetto nell’esercito dell’imperatore Hirohito negli anni dell’occupazione giapponese della Corea e della Manciuria.

«Nelle fila dell’esercito imperiale giapponese, Park partecipò a retate e ad azioni di polizia contro i partigiani coreani. Un fardello storico che, ancora oggi, molti continuano a rimproverargli», dice Maurizio Riotto, docente di lingua e letteratura coreana all’Università di Napoli ‘L’Orientale’.

Ma è proprio nella Manciuria occupata che Park Chung-hee tocca con mano la strategia usata da Tokyo nella costruzione dello Stato-sviluppista. Una strategia che farà poi sua nei diciotto anni in cui guiderà con pugno di ferro la Corea del Sud: forti dosi di nazionalismo, rigoroso controllo dello Stato sull’economia e sulle scelte di politica economica delle grandi imprese private.

Insomma, il libero mercato è solo sulla carta. Nel capitalismo dirigista e confuciano – che ha poi avuto grande fortuna in Asia orientale – la mano invisibile del mercato teorizzata da Adam Smith è accompagnata da un forte e costante potere d’indirizzo della politica. Solo poche settimane dopo il colpo di Stato, Park Chung-hee ha già inaugurato l’Economic Planning Board, l’ufficio governativo incaricato di redigere i piani quinquennali su cui poggia lo sviluppo economico pianificato della Corea del Sud. Certo, alla base del miracolo economico ci sono anche le grandi imprese private – le cosiddette chaebol: Samsung, Hyundai, Daewoo – le cui scelte di politica industriale orientate all’export non sono autonome, bensì attentamente guidate dalla squadra del Presidente.

«Attraverso una politica di sussidi economici e di facilitazioni nell’accesso al credito, Seul premiava quelle aziende che raggiungevano i rigidi obiettivi nelle esportazioni fissati dal Governo», dice Antonio Fiori, professore di storia e istituzioni dell’Asia orientale all’Università di Bologna.

L’amministrazione, insomma, raggiunge un accordo con i gruppi privati del capitalismo coreano: garantisce alle chaebol gli strumenti per rimanere competitivi sui mercati internazionali, in cambio dell’assoluta fedeltà ai piani del Governo.

«Le politiche economiche di Park Chung-hee hanno dimostrato come un’economia pianificata con intelligenza possa essere molto efficace per promuovere lo sviluppo», aggiunge il professor Fiori. Non solo. Visto il crescente bisogno per la Corea del Sud di capitali stranieri, a metà anni ’60 Park Chung-hee normalizza le relazioni con il Giappone. Una decisione impopolare e che infiamma il nazionalismo coreano, ma che apre anche il mercato giapponese ai beni di consumo a prezzi stracciati prodotti in Corea del Sud e che porta al Governo di Seul aiuti per 800 milioni di dollari. Lo stesso anno, Park Chung-hee invia i soldati sud-coreani a combattere a fianco degli Stati Uniti in Vietnam: un gesto che viene ricompensato da Washington con un nuovo pacchetto di aiuti e con l’apertura del mercato americano alle esportazioni di Seul. Sono anni di crescita economica travolgente per la Corea del Sud, non si può però dire che Park Chung-hee sia stato un dittatore benevolo. L’anno di svolta è il 1972.

Il generale Park approva la riforma costituzionale Yushin che – eliminando ogni limite ai mandati presidenziali – lo trasforma di fatto in un Presidente a vita. Fino a quel momento in Corea del Sud c’era stato un regime certamente autoritario, ma la società civile era comunque riuscita a conservare qualche margine di manovra.

Con la riforma Yushin cambia tutto. All’inizio degli anni ’70, Park Chung-hee si sentiva minacciato dalle crescenti tensioni sociali e dall’opposizione politica liberal-democratica del Partito della Nuova Democrazia guidato da Kim Dae-jung. «L’inflazione cresceva, mentre i salari rimanevano bassi per non pregiudicare le esportazioni. Molti, inoltre, pensavano che i risultati economici del Paese rimanessero concentrati nelle mani di poche famiglie», dice il professor Fiori.

A livello internazionale, inoltre, gli Stati Uniti avevano aperto alla Cina di Mao e a Washington si teorizzava la dottrina Nixon, così che Park Chung-hee inizia a temere l’abbandono dell’alleato americano. La risposta interna è durissima: Park impone la legge marziale, scioglie il Parlamento, mette fuori legge ogni attività politica e vara leggi speciale, come quella che vieta ogni critica al Presidente. «L’anti-comunismo era diventata materia d’insegnamento obbligatoria nelle scuole – ricorda il professor Riotto – mentre si poteva finire torturati sulla base di semplici sospetti».

Il manganello nelle mani di Park Chung-hee si chiama Korean Central Intelligence Agency e ha il compito di scovare e reprimere ogni forma di dissenso interno o di attivismo sindacale.
Chi cade nelle mani dei torturatori della KCIA viene inevitabilmente bollato come comunista e condannato a lunghi periodi di detenzione. Si tratta, in realtà, di studenti e professori universitari, qualche colletto blu, persino preti cattolici e protestanti. «La società civile coreana ha pagato un prezzo altissimo in quegli anni – dice il professor Fiori – se c’era fermento è perché ampi settori politici e sociali non ne potevano più del clima repressivo che si respirava nel Paese e auspicavano solo una vera democratizzazione».

Nell’agosto 1973 si arriva al rapimento del leader dell’opposizione. Kim Dae-jung, il volto del movimento democratico coreano negli Stati Uniti e in Giappone, viene fatto sparire da una stanza di albergo a Tokyo e si arriva a un passo dall’esecuzione.

Se Kim Dae-jung è riuscito a tornare sano e salvo in Corea è stato solo grazie all’intervento dell’ambasciatore americano a Seul, Philp Habib, che informò il generale che Washington non avrebbe tollerato la morte del leader democratico.

Le crescenti manifestazioni di piazza contro il regime rendono Park Chung-hee sempre più paranoico. Fino a quando, una sera di ottobre del 1979, le sue critiche all’operato dell’agenzia di sicurezza e le accuse all’intelligence di non essere in grado di tenere a bada una situazione sociale esplosiva, armano la mano del capo della KCIA. I colpi di pistola sparati da Kim Jae-kyu – su cui molto si è speculato – raggiungono Park Chung-hee mentre brinda con del whishy Chivas Regal e pongono fine a un regime durato quasi due decenni.

Ma, la lunga ombra Park Chung-hee però si proietta ancora oggi sulla Corea del Sud. È un’eredità controversa e polarizzante: per alcuni rimane uno spietato dittatore che ha torturato il suo popolo, per altri Park è stato il miglior Presidente nella storia della Corea e colui che ha gettato le basi del miracolo economico della tigre asiatica.