Ci sono parole del nostro lessico politico la cui storia è remota: democrazia, impero, repubblica, popolo, dittatura. Parole sdrucciolevoli, se non altro perché pesa sulla cognizione che ne abbiamo l’ingannevole aura di familiarità che le circonda. Tirannide fa parte della serie: una letteratura multiforme ha guardato lungo i secoli al tiranno da prospettive assai diverse, da quella teologico-morale allo sguardo più tecnico e distaccato che già alla fine del medioevo era descrittivo del contenuto giuridico-istituzionale delle autocrazie segnate da un dubbio profilo di legittimità o da sospette commistioni fra vizi privati e pubblici interessi.
Giovane e maldestro nel governo delle passioni, il primo tiranno fu probabilmente Achille. Parte da lontano, dalle vertiginose profondità del mito, il politologo canadese Waller R. Newell nel suo Tiranni Una storia di potere, ingiustizia e terrore (traduzione di Gian Luigi Giacone, Bollati Boringhieri, pp. 396, euro  25, 00). Sarebbe stato arduo per chiunque fissare a priori una definizione non troppo sfocata, e nel libro, infatti, non la si trova: oppressori della libertà ma anche costruttori di civiltà (e di stati), brutali cleptocrati e utopisti radicalizzati, i tiranni sono – questo il senso di fondo del libro – incarnazione del male (a vari gradi di intensità) annidato nelle pieghe più tetre e perverse della natura umana.

Un immane calderone
Che rapporto c’è tra questo assunto al tempo stesso pesante e convenzionale e una lettura sensibile alla storia? Cosa fosse esattamente la tirannide è stata una domanda non senza risposte; le definizioni possibili sono state anche troppe, tanto da favorire la marginalizzazione di questo concetto nel grande pensiero politico moderno, da Machiavelli e Hobbes in poi. Nel XX secolo però, non per caso, la tirannide tornò a essere interrogata, da Hannah Arendt a Leo Strauss. Newell prova a ora a farne uno strumento di analisi del mondo altamente instabile di oggi, per dare conto di cosa sia «andato storto». La domanda di Bernard Lewis a proposito del radicalismo islamico viene fatta propria dal politologo canadese, e generalizzata: forse, dice, per spiegare questo nostro mondo in preda a un oscuro disordine, fra dittature oppressive, convulsioni millenaristiche, movimenti terroristici, occorre utilizzare una categorizzazione antica.
Il ritorno al passato di Newell sconta però, come spesso accade in molta letteratura politologica, un debole equilibrio fra storia e presente: regola quindi impropriamente la distanza critica rispetto ai molti piani temporali convocati e intrecciati in un vorticoso viavai fra i secoli e i millenni, tra fonti e problemi estremamente eterogenei. Newell prova a districarsi nell’immane calderone da lui stesso allestito distinguendo satrapie antiche, nelle quali il despota si comporta come vero e proprio padre-padrone della comunità, tirannie moderne, più moderate e «progressive» (i grandi sovrani del lungo rinascimento europeo), e brutali dominazioni millenaristiche (quelle inaugurate dal terrore giacobino).

Malgrado questa approssimativa classificazione, la tentazione più forte rimane però quella di ricondurre tutti i protagonisti di questa vicenda all’interno di un’unica galleria degli orrori, che, come è evidente, contiene tutto e il suo contrario: eroi omerici e sovrani persiani, Giulio Cesare e Federico il Grande, imperatori cristiani e dittatori comunisti, Ciro il Grande a Abu Bakr al-Baghdadi.

Così, finiscono schiacciati nello stampo tirannico tutti i regimi del passato a vario titolo monarchici (ed è questa, forse, la pecca più clamorosa del libro), immaginando che il filo rosso della storia universale, la contesa tra tirannide e libertà, si intrecci con genealogie leggibili senza particolari sforzi. La maggiore sarebbe quella inaugurata da Robespierre e dai giacobini, progenitori di tutte le culture rivoluzionarie tra Otto e Novecento, e del loro riflesso politico, la galassia solo in apparenza incomponibile fatta di socialismi più o meno realizzati, fascismi e nazionalismi totalitari, radicalismi politico religiosi.

Ora, questa genealogia del terrore non è certo una novità. Newell però la corrobora, e involontariamente la celebra, cercando di rivelare la radice senza tempo del male politico in quanto tale: una radice demoniaca, una specie di pulsione all’onnipotenza che da sempre insidia gli esseri umani, soprattutto quelli in giovane età, e che, se non disciplinata, può degenerare in ambizione tirannica. È uno sguardo unidimensionale, nonché manicheo, quello che guida una simile prospettiva, che divide senza esitazioni buoni e cattivi, vittime e carnefici. Uno sguardo, in più, duramente orientalista e integralmente autoassolutorio.
Il Novecento e l’inizio del nuovo millennio ci vengono presentati infatti come un immane carnaio totalitario, cupo inveramento di pulsioni «omeriche», nel quale tuttavia ha resistito, non si capisce bene come, una cittadella miracolosamente immune dal virus del dispotismo totalitario e millenarista: il bastione della civiltà occidentale, a statuto liberaldemocratico, e a trazione anglosassone. Il male è, infatti, in ogni caso, altrove, in Oriente: nell’impero persiano in conflitto con le libere città greche, o nel cristianesimo ortodosso e nella regalità bizantina insieme alle loro propaggini slave e in Russia, poi – naturalmente – nell’Islam. I tiranni sono orientali: anche quelli materializzatisi incidentalmente in Occidente, come Napoleone o Hitler.

In funzione di antidoto
Una tesi ispirata al pessimismo antropologico più elementare sostiene dunque questo libro di Newell, traducendosi in dispositivi causali che riportano spesso ad antichi saperi medico-morali (fra sbalzi di umori e sregolate passioni) dove si azzerano, di necessità, contingenze, cronologie, differenze. Quale funzione intendeva svolgere un saggio così orientato, la cui destinazione è un pubblico colto ma non di soli specialisti, pubblicato, in originale, da una tra le più prestigiose e rispettabili case editrici internazionali, la Cambridge University Press? Forse quella di antidoto alle diffuse paure di cui l’autore si è fatto testimone: lo ammette egli stesso, del resto, quando dichiara di avere cercato una «bussola morale» per orientarsi nel ginepraio di contraddizioni che contraddistingue l’età del terrorismo globale.

È dubbio che spetti alla storia fornire «bussole morali»; di certo, invece, l’approdo rassicurante alla genealogia ha reso in questo caso paradossalmente superflua la ricognizione dell’aspra specificità dei disordini attuali, attribuendo al terribile spettro del tiranno una maschera tutto sommato rassicurante, perché riconoscibile. Lo sfuggente profilo kirghiso di uno dei protagonisti della galleria degli orrori, Vladimir Putin, torna così d’incanto familiare: è quello di uno fra i tanti tiranni domestici che popolano i nostri incubi, il nostro passato immaginario, e le serie TV.