La torre sbilenca e instabile del New Museum è ormai parte integrante dello skyline del Lower Manhattan, incastrata com’è in una sequenza di costruzioni modeste lungo l’arteria di Bowery Street, che dall’East Village scende quasi fino al fiume: un gioco di bimbi in disequilibrio perfetto su uno scenario di caotico ordine urbano.
Il museo si è trasferito nel 2007 nell’edificio disegnato dallo studio SANAA di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, per volontà della donna che ne è tutt’ora la direttrice, Lisa Phillips, erede di Marcia Tucker: quest’ultima, coraggiosa pioniera dell’impresa, aveva immaginato nel ’77 un primo spazio autonomo ricorrendo alle proprietà della New School for Social Research e da lì aveva accompagnato la crescita inarrestabile della propria creatura, presto trasferitasi a SoHo in un palazzo Beaux-Arts sulla Broadway; collocazione prestigiosa ma che all’inizio del secolo appariva inadeguata per il ruolo centrale stabilmente rivestito sulla scena internazionale dalla popolosa raccolta permanente e dalla programmazione, vieppiù aureolata di un credito istituzionale .
Già da un simile, breve résumé, si intuisce quanto, da quelle parti, siano appassionati di commemorazioni e ricorrenze. Il recente trasloco della galleria, con l’intento di una siglata qualificazione degli ambienti, è coinciso – alla fine del decennio passato – coi trent’anni dalla sua apertura; e ancora oggi siamo di fronte a un doppio anniversario (quello della fondazione e quello del debutto del nuovo stabile), onorato con la mostra Trigger: Gender as a Tool and a Weapon (fino al 21 gennaio) secondo un progetto di Johanna Burton, Keith Haring Director e Curator of Education and Public Engagement.
Si tratta di un evento che, come anticipato nel titolo, intende radunare attorno al nodo del ‘genere’ – in una prospettiva teorica radicata negli scritti di Judith Butler, di Eve Kosofsky Sedgwick e nelle letture di José Esteban Muñoz, tutti direttamente menzionati nella premessa che introduce al catalogo – lavori prodotti negli ultimi dieci anni, in accordo con la vocazione di urgente attualità da sempre inclusa nella missione del New Museum. E vuole farlo slegandosi da una tematizzazione dell’argomento: il percorso attraverso i tre piani dell’esposizione – verso la terrazza che dischiude una prospettiva sull’isola, sul suo paesaggio architettonico e umano – si prefigge piuttosto di offrire una carrellata di visioni «gender-y» (è uno spunto desunto dalla Sedgwick e dal volume collettaneo Constructing Masculinity del 1996), a un tempo rivolte in direzione di altri elementi costitutivi delle individualità ‘singolari’ e delle differenze che le organizzano, in primis la blackness e il pregiudizio razziale, accanto a motivi di disparità sociali, di diseguaglianze in termini di cittadinanza. Il gender quindi non come «qualcosa che si è» ma come «qualcosa che si agisce»; e che si attiva nello spazio dell’incontro, della contrattazione del sé all’interno di dinamiche collettive (da Nicolas Bourriaud in poi uno dei campi preferenziali per l’operatività dei linguaggi del contemporaneo). In questa prospettiva si gioca lo sfuggente dettato dell’intestazione: perché se l’ambivalenza di utensile/arma serve in fondo a suggerire un diverso schema, legato appunto alle pratiche dell’azione artistica, culturale, dell’iniziativa personale, anche la parola trigger – grilletto, miccia ma insieme, in chiave piscologica, motore memoriale di un momento traumatico rispetto allo stratificato deposito dell’inconscio – assume un’ambiguità propria, sospesa fra l’impasse e il rivolgimento.
Non stupisce dunque che, a fianco di opere ispirate a un immaginario camp, gay o queer classico o per così dire canonizzato (è il caso del corto dedicato all’icona Marsha P. Johnson da Reina Gossett e Sasha Wortzel o dell’iridescente omaggio a Peter Berlin di Mariah Garnett), si evidenzino quadri fedeli a un’ortodossia astratta, fra cui le prove di Ulrike Müller o Nancy Brook Brody dai titoli allusivi come Glory Hole. Queste proposte, scommettendo sulle coercizioni percettive e con esse negoziando zone inedite di libertà, sembrano infatti indicare possibili manifestazioni dell’indecidibilità gnoseologica di un ‘oggetto di sguardo’, implicando un ricorso al gender come prassi al di là dell’esclusiva sessualizzazione del concetto: una démarche sottoposta a molteplici censure in fase di ricezione critica ma difesa dalla stessa Burton in una lunga intervista pubblicata su «Artspace» il 16 novembre e d’altronde in linea con speculazioni come quelle elaborate da Jack Halbertsam nel libro In a Queer Time and Space.
La raccolta di lavori da parte della curatrice non ha del resto portato a un appiattimento anagrafico nelle scelte operate al momento di formulare gli inviti. A guardare le date di nascita degli artisti coinvolti le predilezioni espresse coprono un trentennio – dagli anni sessanta agli anni novanta – e associano nomi consacrati nell’ambito delle risposte visuali suscitate dall’emergenza pandemica dell’AIDS fra gli Ottanta e i Novanta (è il caso di Gregg Bordowitz, autore di un video seminale per quel frangente come Fast Trip, long Drop), performers provenienti dalla scena underground dello stesso periodo (Vaginal Davis fra gli altri), a profili giovani, favoriti da una qualche notorietà, come Troy Michie, Josh Faught e Geo Wyeth. A un tempo il registro degli ospiti si articola attraverso una serie di «definizioni del sé» le quali coprono i graduali smottamenti che hanno arricchito la galassia LGBTQ da Stonewall in qua; e anche suddetto indicatore – determinato dalla più o meno reticente biografia di ciascun artista – chiarifica le opzioni effettuate in un’ottica di massima rappresentatività rispetto al dibattito corrente sulle politiche identitarie.
La selezione collima in modo puntuale con il pedigree rivendicato per Trigger all’interno dell’ormai lunga cronografia del New Museum. L’episodio odierno viene infatti incardinato a un’infilata gloriosa di mostre, testimoni di un passaggio traumatico dal discorso formalizzato del Moderno agli orizzonti pulviscolari del Postmodern. Il catalogo rimanda così all’avventurosa Extended Sensibilities: Homosexual Presence in Contemporary Art, ideata da Dan Cameron nel 1982, per poi citare esperienze successive come Difference: On Representation and Sexuality (1984-’85), HOMO VIDEO (1986-’87) e Bad Girls (1994); e nel comporre un simile, coerente background il libro segnala il progressivo slittamento lessicale di un armamentario ermeneutico in evoluzione, annotando con esso la dissonante gamma di reazioni giornalistiche registrate lungo i decenni per ogni evento.
Tale spinta storiografica si dimostra del resto la vena fertile dell’esposizione, nel tentativo non tanto di organizzare una vague compatta di coetanei più o meno allineati da un punto di vista generazionale, quanto semmai in quello di sistematizzare un ‘lignaggio’ del gender, in rapporto a influssi, costellazioni e discendenze. Si muovono in questo senso le ‘genealogie’ chieste dalla Burton agli artisti e organizzate al centro del catalogo: elenchi creativi in cui si incontrano fantasmi ricorrenti da Tennessee Williams a Derek Jarman, da Jean Genet a Félix González-Torres. Non è un caso che, a ingresso in mostra (e cioè nel principale ascensore del museo), ci si imbatta nell’insolito Who’s who assemblato da Chris E. Vargas, un’impossibile «foto di gruppo», con chiave di riconoscimento delle singole personalità, per un Museum of Transgender Hirstory of Art di cui si trova perfino un sito online, diretto dallo stesso Vargas. E forse non è nemmeno una coincidenza che, non più tardi di quest’estate, in un altro ‘luogo’ appartenente alla medesima mappa newyorkese, e cioè il Leslie-Lohman Museum of Gay and Lesbian Art, un intellettuale come Avram Finkelstein, membro prolifico di Act-Up negli anni bui dell’epidemia, abbia convocato una collettiva intitolata Found: Queerness as Archaeology