Salvini promette che martedì sarà la giornata buona ma, non essendo la prima volta che lo dice, nessuno prende l’impegno troppo alla lettera. Anche perché il pragmatico braccio destro Giorgetti stempera e fa sapere che, con l’agosto di mezzo, c’è tempo. Sempre meglio mettere le mani avanti: la candidatura per il centrodestra a Milano brucia un papabile dopo l’altro a velocità vertiginosa. Mai vista una lista tanto lunga di candidati in pectore per una corsa che tutti danno comunque per persa.

L’ultimo a spuntare all’improvviso è il primario della Pediatria del Fatebenefratelli Luca Bernardo. Ieri i canali di comunicazione del Carroccio hanno pompato quanto più possibile la sua presenza, con tanto di firma, ai gazebo dei referendum sulla giustizia. Lui racconta di aver effettivamente parlato con Salvini: «La mia disponibilità c’è, ma nessuna sicurezza». L’insicurezza dipende dal fatto che con Berlusconi e Meloni il medico ancora non ha parlato e anche se Milano è piazza leghista il loro semaforo verde è necessario. Lui però già parla come candidato deciso a contendere la piazza moderata. Toni moderati, neppure un sbavatura sguaiata: «Sala è stato un bravo sindaco e lo ritengo un gran signore. Ma io faccio il medico e ho le mani nel sociale: questa è una differenza. Quel che dobbiamo fare ora, dopo la pandemia, è riaccendere la luce su Milano». Se sarà lui il candidato della destra la campagna elettorale sarà straordinariamente civile, all’opposto degli standard italiani. Se il suo è solo uno dei tanti nomi nel frullatore oppure quello giusto lo si capirà solo martedì prossimo. Ma stavolta è davvero facile che la fumata sia bianca.

Ma la domanda resta: perché è così difficile scegliere un candidato anche quando si tratta, salvo miracoli, solo di indovinare il miglior perdente? La risposta, ovviamente, è che la partita di Milano e delle amministrative va inscritta in quella più complessiva che ha per posta in gioco gli equilibri del centrodestra e anche la natura della coalizione. Ieri dal Pd sono partite bordate a ripetizione contro Salvini, leader double face che da un lato cerca d’imporre l’immagine del sostenitore più convinto di Draghi nella maggioranza, salvo poi in Europa confermare, firmando il documento comune, l’asse con i partiti antieuropeisti. «Non si può tifare insieme Inter e Milan», sbotta il segretario del Pd Letta e tutto il Nazareno in coro grida alla clamorosa contraddizione. Persino il numero 2 della Lega Giorgetti appare un po’ spiazzato: «Dico la verità, non ho fatto a tempo a leggerlo», dice, e non può che suonare come una presa di distanza. Il ministro se ne accorge, stempera: «La cosa è stata curata da Fontana. È una persona per bene e non credo che abbia fatto una cosa sbagliata». Fontana fa il prestigiatore, spiega che il manifesto sovranista serve al «dialogo con il Ppe», poi chiacchiera un po’ al telefono con Giorgetti e al termine i due giurano di pensarla esattamente allo stesso modo. Proprio mentre Salvini si produce nell’ennesimo peana a Draghi: «Gli do 8 in pagella». Il Pd farà bene a capire che giocare sulle contraddizioni della destra è inutile da tutti i punti di vista. Il problema è perché la destra e i suoi elettori riescano così facilmente a ignorare tensioni e contraddizioni mentre sul fronte opposto le stesse cose sono un trauma.
Non ci sono solo Giorgia e Matteo. Berlusconi avrà ormai meno voti di loro ma è forse quello che gioca la partita più ambiziosa. Con tre obiettivi: unificare il centrodestra entro il 2023, portarlo intero nel Ppe e tentare l’impossibile colpo grossissimo: la conquista del Quirinale.