Doveva essere la giornata del “kawshù”, la giornata della gomma, ossia dei ‎pneumatici dati alle fiamme che, con il loro fumo nero e denso, avrebbero impedito ‎ai tiratori scelti israeliani di prendere di mira i manifestanti della “Marcia del ‎Ritorno” organizzata a Gaza. Invece è stata una nuova giornata di sangue simile a ‎quella del 30 maggio. Sotto i colpi sparati dai militari israeliani sono caduti almeno ‎otto palestinesi, tra i quali un 16enne Hussein Madi, e oltre mille feriti, stando ai ‎dati del ministero della sanità palestinese. Negli ultimi otto giorni, lungo le linee di ‎demarcazione tra Gaza e Israele, sono stati uccisi 30 palestinesi. L’esercito ‎israeliano ha di nuovo scaricato ogni responsabilità sui palestinesi, sul movimento ‎islamico Hamas che, a suo dire, sarebbe il regista della “Marcia del Ritorno”. Il ‎portavoce militare ha riferito di tentativi palestinesi di attaccare la recinzione e ‎infiltrarsi in Israele, di ordigni esplosivi e bottiglie molotov lanciati, attraverso la ‎barriera. “Atti di terrorismo” al quale l’esercito avrebbe risposto con ‎«moderazione» ‎facendo uso di cannoni ad acqua, ventilatori antifumo e di armi da fuoco ma solo ‎nelle situazioni più critiche. Una reazione ‎«contenuta» che non trova riscontro nei ‎tanti morti e feriti palestinesi. Ieri a Ginevra l’Alto Commissariato Onu per i diritti ‎umani ha espresso preoccupazione per le nuove violenze, parlando di “dichiarazioni ‎inquietanti” rilasciate dalle autorità israeliane. La portavoce Elizabeth Throssell ha ‎sottolineato che il 30 maggio l’equipaggiamento e le difese delle forze israeliane ‎‎”non avrebbero dovuto portare ad un uso della forza letale”. Ieri è andata allo stesso ‎modo.‎

‎ La giornata è stata segnata subito dalla morte in ospedale di Thaer Raba’a, uno ‎dei tanti feriti gravi del primo venerdì della Marcia del Ritorno. Migliaia di persone ‎sono affluite nei cinque accampamenti eretti nei giorni scorsi. I più giovani hanno ‎cominciato ad accatastare in vari punti centinaia di vecchi pneumatici, i kawshù. ‎Qualcuno indossava delle maschere antigas artigianali ricavate da bottiglie e altri ‎oggetti di plastica. Maryam Abu Daqqa, una studentessa di 20 anni, ha spiegato a ‎una televisione locale di essere andata all’accampamento ‎«per onorare le persone ‎uccise‎». Ha aggiunto di avere paura ma che sarebbe ugualmente avanzata verso le ‎barriere di confine: ‎«Siamo qui per dire all’occupazione che non siamo deboli‎». ‎Quindi i manifestanti, i volti di alcuni di loro erano coperti di fuliggine, hanno dato ‎fuoco ai pneumatici.‎

‎In pochi attimi si sono levate nuvole di fumo nero che spinte dal vento si sono ‎dirette verso le postazioni israeliane. Dall’altra parte hanno cercato di usare i ‎cannoni ad acqua per spegnere i kawshù in fiamme senza grande successo. Poi ‎gruppetti di giovani hanno cominciato a correre verso la recinzione. La reazione dei ‎soldati, nonostante il fumo denso, non si è fatta attendere ed è stata una replica del ‎‎30 marzo. In particolare a Khuzaa, un villaggio a Est di Khan Yunis, divenuto ‎tristemente noto durante l’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014 per ‎l’elevato numero di vittime civili e per le distruzioni di case ed edifici. Il primo a ‎cadere sotto il fuoco dei tiratori scelti è stato Ahmad Nizar Muhareb, 29 anni. Poi ‎sono stati uccisi Sidqi Abu Outewi, un 45enne, Mohammed Saleh, 33 anni, Ibrahim ‎Al-Ourr, 22 anni e altri quattro di cui ieri sera non era stata ancora accertata ‎l’identità. È stato uno stillicidio di vite umane, in buona parte giovani. E la striscia ‎di sangue potrebbe allungarsi perché alcuni dei feriti (oltre mille) sono in condizioni ‎gravi. Gli spari non hanno risparmiato sei giornalisti, colpiti secondo i media locali, ‎nonostante fossero chiaramente identificabili come operatori dell’informazione. A ‎Khuzaa poco dopo è andato in visita il capo di Hamas a Gaza, Yehiyeh Sinwar, che ‎ha ricevuto l’accoglienza di un eroe. Circondato da centinaia di sostenitori che ‎scandivano “Andremo a Gerusalemme”, Sinwar ha annunciato che il mondo presto ‎si troverà di fronte a ‎‎«una nostra grande mossa, con cui violeremo i confini e ‎pregheremo nella moschea di Al-Aqsa‎», riferendosi al principale sito religioso ‎islamico a Gerusalemme. Sinwar ha lanciato una sfida dai rischi incalcolabili, e non ‎solo per per i palestinesi.‎

‎ Se questo – oltrepassare le linee di demarcazione con Israele – sia davvero ‎l’obiettivo di Hamas non è chiaro. Invece non ci sono dubbi sul fatto che la Marcia ‎del Ritorno abbia messo nell’angolo il presidente dell’Anp Abu Mazen – piuttosto ‎tiepido sino ad oggi nei confronti dell’iniziativa in corso a Gaza – e rafforzato gli ‎islamisti. Abu Mazen ha dovuto frenare i suoi impulsi e rinunciare ad imporre ‎nuove sanzioni contro Gaza, in risposta all’attentato al premier dell’Anp Hamdallah ‎e al fallimento, almeno sino ad oggi, dell’accordo di riconciliazione con Hamas. E le ‎sue mosse rimarranno congelate ancora a lungo, sino a quando andrà avanti – fino al ‎‎15 maggio dicono gli organizzatori – e con grande partecipazione popolare ‎l’iniziativa per rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza.‎