«Mi piace la boxe, mi piace indossare i guantoni, mettere il casco, mi piace tutto di questo sport». Parla con un filo di voce Farah Abu Qumsan sopraffatta dalla timidezza.

APPENA ENTRA SUL RING svanisce ogni incertezza ed esplode la carica che ha dentro. «Ho scelto la boxe per imparare a difendermi dagli aggressori», ci spiega Farah in una pausa dell’allenamento. Fanno da sottofondo alla nostra conversazione al telefono le grida di incitamento che il suo allenatore, ormai un secondo padre per lei, Osama Ayob, rivolge a un’altra ragazza: «Vai colpisci, più forte, uno-due, uno-due, vai continua così».

Farah Abu Qumsan

Farah ha 13 anni ed è la vincitrice del primo campionato di boxe per ragazze svoltosi a Gaza il 20 novembre. Ha cominciato ad allenarsi tre volte a settimana sette mesi fa e per lei il pugilato è diventato una ragione di vita.

«All’inizio – ci racconta – i miei genitori avevano paura. Mi dicevano che il pugilato non è fatto per le donne, che i pugni mi avrebbero rotto il naso e che avrei fatto meglio a scegliere un altro sport. Poi li ho convinti a venire in palestra, a guardarmi. Lì hanno capito che la boxe è uno sport meraviglioso e da allora non fanno che incoraggiarmi. Quando ho vinto il titolo a casa è stata festa tutto il giorno».

FARAH SI IMMAGINA già una pugile famosa, che nei prossimi anni rappresenterà la Palestina nei tornei internazionali. E come lei tante delle sue compagne che negli ultimi mesi hanno abbracciato questo sport. In una società, quella di Gaza, conservatrice che, come altre nel mondo, non vede nella boxe uno sbocco appropriato per la vita di una donna, 45 bambine e ragazze di Gaza nei mesi scorsi, tra lockdown imposti dal Covid-19 e la resistenza iniziale delle loro famiglie, hanno cominciato a frequentare la palestra gestita da Osama Ayob, 36 anni, che il pugilato l’ha sempre avuto nel sangue. Allenamenti, sudore e impegno hanno portato al primo campionato di boxe femminile, tra i 6 e i 16 anni.

«Abbiamo dimostrato che andare sul ring non è solo per i maschi. Più di tutto abbiamo dimostrato che anche la nostra società è in evoluzione e che ciò che appariva impraticabile per una donna oggi è fattibile. Non è la soluzione dei problemi però è un segnale significativo per Gaza che non dimentichiamolo da anni deve fare i conti anche con il blocco israeliano», spiega Amal Al Khayal che lavora per la ong di Palermo Ciss da anni impegnata con vari progetti a Gaza, in Medio Oriente e nel sud del mondo.

PROPRIO IL PROGETTO “Boxe contro l’assedio”, avviato nel 2018 dal Ciss, con l’invio nella Striscia del pugile professionista Giancarlo Bentivegna, è stato la base sulla quale il pugilato, già praticato da decine di giovani palestinesi, ha fatto ancora più presa a Gaza. Fondamentale si è rivelato il contributo della Palestra popolare di Palermo a cui si sono poi aggiunte le palestre di Roma Valerio Verbano e del Quarticciolo.

Sono arrivati materiali, guantoni, caschi, paradenti e, grazie a un crowdfunding, un po’ di fondi per ristrutturare ed equipaggiare le strutture. «Boxe contro l’assedio nasce dal basso – spiega Valentina Venditti, cooperante del Ciss che ha seguito il progetto dalla sua ideazione alla realizzazione – con lo scambio di atleti italiani e palestinesi, dal rapporto con realtà radicate nel territorio sia di Palermo che di Roma e in collaborazione con la Federazione palestinese di pugilato».

Le cose si sono messe subito per il verso giusto. «Con le palestre del Quarticciolo e Valerio Verbano – aggiunge Venditti – si sono fatti dei programmi di formazione per i tecnici (palestinesi). Soprattutto si è fatto il possibile per sostenere una piccola componente femminile che già esisteva all’interno della Federazione palestinese che però si limitava ad allenamenti concentrati in un paio di settimane all’anno». Infine una piacevole ed importante sorpresa.

«La prima volta che siamo andati – racconta la cooperante italiana – non ci aspettavamo di trovare un gruppo di ragazze, alcune tra i 20 e i 25 anni, che avevano così tanta passione per il pugilato. Così nelle successive missioni abbiamo portato anche atlete donne e cominciato ad allenare le ragazze palestinesi facendo capire che si può praticare questo sport in totale sicurezza, con effetti importanti anche per l’autostima».

LA PALLA, IL GUANTONE in questo caso, è quindi passato ai palestinesi che in piena autonomia, con l’allenatore Osama Ayub in testa, hanno continuato a promuove la pratica della boxe tra ragazzi e ragazze.

«All’inizio è stato complicato, le ragazze era entusiaste ma un po’ incerte – dice al Khayal – Le famiglie facevano tante domande sulla palestra, chiedevano allenamenti solo per donne, volevano garanzie. Alla fine è andato tutto bene e i risultati si sono visti». E se ora la boxe coinvolge famiglie più aperte e con livelli superiori di istruzione, l’impegno di Osama in futuro è coinvolgere nel progetto ragazze provenienti da famiglie povere e offrire allenamenti di pugilato ed esercizio fisico a giovani donne che non hanno possibilità di farlo.

Farah Abu Qumsan intanto sogna e da adulta si immagina ai giochi olimpici. Ammira Mohammed Ali ma il suo modello è uno dei pugili più potenti e più controversi del storia della boxe: «Mike Tyson è stato il più grande, magari un giorno avrò anche io il suo gancio».