L’auto arranca su sabbia, pietre e acqua. E inevitabilmente si pianta nel fango. «Fermi» ci intimano un paio di ragazzi. In pochi attimi ne arrivano altri quattro o cinque. Spingono il nostro malandato taxi, liberandolo. «Da questa parte, guardate – indica uno di loro – (gli aerei israeliani, ndr) hanno colpito la strada e la conduttura dell’acqua, siamo rimasti senz’acqua per giorni e ora ne abbiamo solo per due-tre ore al giorno».

UN ALTRO RAGAZZO CI GUIDA tra le macerie del bombardamento avvenuto la scorsa settimana, prima del cessate il fuoco tra Hamas e Israele. Davanti a noi c’è un’ampia e lunga voragine che spezza in due l’arteria principale di Bir Naja, un sobborgo di Jabaliya nel nord della Striscia di Gaza. «La rete idrica qui è recente, l’avevano ultimata da un paio di anni e ci sarà da lavorare per settimane per rimetterla in funzione», spiega Amr, un muratore di 64 anni, con una lunga esperienza di lavoro a Tel Aviv prima della chiusura di Gaza decisa nel 2007 da Israele, quando il movimento islamico Hamas ha strappato il controllo della Striscia all’Autorità nazionale del presidente Abu Mazen.

Sotto gli occhi di decine di adulti e bambini, una ruspa rovescia sabbia su sabbia nel tentativo di chiudere l’enorme ferita che squarcia la strada. Tanta acqua preziosa continua a scorrere invano. «Quest’acqua non raggiungerà Gaza city, più in basso – aggiunge Amr – migliaia di famiglie vedranno scorrere solo un filo d’acqua dai rubinetti».

GIRANDO PER LE STRADE della Striscia, saltando dalla fascia orientale alla costa di Sudaniye, da Beit Hanoun, Beit Lahiya, Jabaliya fino a Gaza city le immagini davanti ai nostri occhi sono il racconto di un incubo durato 11 giorni. Palazzi rasi al suolo, strade sventrate, infrastrutture distrutte o danneggiate. E dalle macerie sono usciti i cadaveri di oltre 250 palestinesi, molti dei quali bambini. Solo l’abilità dei soccorritori ha permesso di tirare fuori ancora vivi numerosi dispersi da montagne di cemento, detriti, polvere, metalli contorti.

Anche i civili dall’altra parte del confine, nel territorio meridionale dello Stato ebraico, hanno passato giorni di tensione e paura segnati dalla morte di 12 persone causata dagli oltre 4000 razzi lanciati da Hamas. Ma il livello di distruzioni e morte subito dai palestinesi è un’altra cosa, è eccezionalmente elevato. E in via Wahda, nel centro di Gaza city, si resta senza parole, schiacciati dal peso di un enorme «perché», di fronte alle rovine delle tre palazzine, alte tre piani, centrate da un numero impressionante di bombe e missili sei giorni dopo l’inizio dell’operazione militare «Guardiano delle mura» ordinata dal governo israeliano dopo il primo lancio di razzi da parte di Hamas. I soccorsi sono andati avanti per tre giorni, alla fine sono stati recuperati 47 corpi senza vita. 22 delle vittime, tra cui diversi bambini, hanno lo stesso cognome. Una famiglia decimata.

 

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SULLE MACERIE SVENTOLANO le bandiere del partito Fatah, rivale di Hamas. «Queste case fanno parte di un rione residenziale, abitato da professionisti, medici, avvocati, docenti», ci spiega Said M. «le bandiere di Fatah sulle macerie spiegano che quei morti non erano di Hamas. Cosa avevano fatto di male quelle donne, quei bambini? Gli israeliani dicono di aver colpito qui a Gaza solo basi militari e di intelligenze ma i morti sono quasi tutti civili. Hanno ucciso anche il dottor Ayman Abu Alouf, dell’ospedale Shifa, che nella vita ha pensato solo a curare persone ammalate, anche quelle con il Covid».

Notiamo un fatto inquietante. Nella stessa strada oltre alle tre palazzine, sono stati colpiti a circa 70 metri il ministero della Sanità, il laboratorio principale che processava i tamponi per il coronavirus e, proprio di fronte, la sede del Pcrf, una ong palestinese-statunitense che da trent’anni offre servizi medici ad alta specializzazione per bambini gravemente ammalati (circa 6mila in totale). Una ong che ha ricevuto riconoscimenti internazionali e che a Gaza, prima del Covid-19, ha ospitato numerose missioni di medici volontari italiani. «Aver colpito il nostro edificio è fuori di ogni logica» ci dice Suheir Flaifl, manager locale del Pcrf, «le autorità israeliane sanno la nostra posizione, siamo conosciuti per la nostra attività in campo sanitario e le altre ong presenti nel palazzo non sono legate ad organizzazioni politiche. Eppure siamo stati presi di mira, senza alcun motivo».

LO STESSO PERCHÉ che ancora si pongono i giornalisti di al Jazeera e della agenzia statunitense Ap e le decine di famiglie della Torre Al Jalaa abbattuta dall’aviazione israeliana. Le autorità di Tel Aviv hanno denunciato la presenza di forze di Hamas nell’edificio. Sino ad oggi però hanno o avrebbero presentato le prove delle loro affermazioni solo agli Usa, non ai civili che vivevano in quel palazzo di dieci piani polverizzato in un attimo.