‎«Non voglio morire, voglio vivere, ma è meglio la morte di questa vita da ‎prigioniero, senza futuro». Non è una frase gettata lì, a caso. Karim, 22 anni, dice ‎ciò che realmente pensano lui e i suoi giovani compagni, riuniti in una tenda per la ‎colazione. Qualche pezzo di pane preparato in casa, un paio di piatti con ‎dell’hummus, qualche pomodoro. Tutti hanno dormito lì come testimoniano i resti ‎di un falò a pochi metri dalla tenda. Sono le 9 e nell’accampamento “Abu Safie”, ‎ad Est di Jabaliya, uno dei cinque allestiti la scorsa settimana nella fascia orientale ‎di Gaza per la “Marcia del Ritorno”, fa già molto caldo. Il sole picchia forte sulle ‎tende e le altre strutture alzate dai palestinesi a diverse centinaia di metri dalle ‎linee di demarcazione con Israele. Dall’altra parte delle barriere ci sono i soldati, ‎inclusi i tiratori scelti che venerdì scorso hanno ucciso 14 palestinesi e ferito altre ‎centinaia con munizioni vere e rivestire di gomma. Altri quattro sono spirati negli ‎ospedali dove restano ricoverate decine delle centinaia di persone colpite dal ‎fuoco dei militari israeliani. ‎«Due dei miei amici sono stati feriti, grazie a Dio non ‎in modo non grave», ci dice Karim indicando un paio di ragazzi, uno avrà non più ‎di 14 anni e sta in piedi appoggiandosi a una stampella. ‎«Venerdì sarà un giorno ‎di sangue, gli israeliani ci spareranno contro ma non abbiamo paura‎‎. Non abbiamo ‎nulla da perdere», spiega un altro giovane, Maher, mentre osserva il lento ‎movimento, avanti e indietro, di una ruspa che ammassa terra lungo il lato ‎orientale di “Abu Safie”. Lo stesso accade negli altri quattro accampamenti. ‎

‎ Questi terrapieni saranno le trincee dove domani i partecipanti della “Marcia del ‎Ritorno”, cercheranno riparo se i soldati apriranno di nuovo il fuoco di nuovo sui ‎palestinesi che proveranno ad avvicinarsi al confine. I filmati postati sui social nei ‎giorni scorsi mostrano non pochi manifestanti colpiti quando si stavano ‎allontando dalle barriere e persino a grande distanza da esse. ‎«Per proteggerci ‎daremo fuoco a cataste di vecchi pneumatici‎, il fumo nero non permetterà agli ‎israeliani di prenderci di mira come hanno fatto venerdì», ci spiega sicuro del fatto ‎suo Abu Tareq Salameh, un uomo sulla sessantina, in un’altra tenda assieme ad ‎una decina di coetanei. ‎«Siamo decisi a rompere l’assedio (di Gaza). Perciò ‎resteremo qui, non ce ne andremo, anche se ci ammazzaranno tutti», aggiunge Abu ‎Tareq lamentandosi, come tutti i palestinesi, giovani e anziani, del debole ‎appoggio che la “Marcia del Ritorno” ha avuto dai leader arabi. ‎«La Lega araba ‎non conta nulla, (martedì) si è riunita solo per scrivere parole vuote su pezzi di ‎carta. I leader arabi amano l’America, amano Trump e pure Israele», conclude ‎l’uomo riferendosi all’avvicinamento dell’Arabia saudita allo Stato ebraico.

‎ Si vedrà domani se gli accorgimenti per proteggersi dagli spari studiati dai ‎palestinesi si riveleranno utili. Israele da parte sua ha fatto sapere che userà ancora ‎il pugno di ferro. Martedì il ministo della difesa Lieberman ha avvertito senza ‎usare mezze parole che coloro che si avvicineranno alle recinzioni metteranno ‎«a ‎rischio la loro vita». Qualche ora dopo un giovane palestinese, Ahmad Arafah, che ‎si era spinto fin sotto alle barriere, è stato ucciso dal fuoco dei soldati. Ieri altri ‎feriti, a est di Zaitun. Israele ha ribadito l’avvertimento in un messaggio per il ‎movimento islamico Hamas, che controlla Gaza, affidato al capo dei servizi di ‎intelligence dell’Egitto, Abbas Camel, ricevuto due giorni fa a Tel Aviv dal ‎direttore dello Shin Bet (la sicurezza interna) Nadav Argaman. Governo, partiti di ‎destra, forze armate e la maggior parte dei media israeliani continuano a descrivere ‎la “Marcia del Ritorno” non come una iniziativa popolare e pacifica organizzata ‎dall’Alto Comitato per la fine dell’assedio di Gaza – include tutte le formazioni ‎palestinesi, laiche e religiose – che andrà avanti fino all’anniversario della Nakba ‎palestinese, il 15 maggio. Piuttosto la ritengono un piano di Hamas per lanciare ‎‎«azioni ‎terroristiche‎» contro Israele. Per questo hanno diffuso le foto in uniforme ‎militare di alcune delle vittime palestinesi di venerdì, sostenendo che si trattava di ‎militanti o simpatizzanti di Hamas e Jihad e sorvolando sul fatto che quando sono ‎stati colpiti erano in abiti civili e disarmati (ad eccezione di due, del Jihad, ‎responsabili di un attacco armato). Ieri Israele ha anche comunicato di aver ‎arrestato una decina di palestinesi, sempre del Jihad, che, secondo i suoi servizi di ‎sicurezza, si accingevano ad attaccare una motovedetta per catturare dei marinai. ‎

‎ Malgrado il sostegno di buona parte dell’opinione pubblica alla linea dura del ‎governo Netanyahu, in Israele si alzano voci contro nuove stragi di palestinesi sul ‎confine con Gaza. B’Tselem, noto centro per i diritti umani, ieri ha esortato i ‎soldati a disobbedire agli ordini e a non sparare sui civili palestinesi se questi non ‎porranno una minaccia per le loro vite. Si tratta di un passo raro se si tiene conto ‎che l’esercito era e resta la spina dorsale della società israeliana e che disubbidire ‎agli ordini militari è considerato un atto gravissimo. B’Tselem nei suoi trent’anni ‎di vita non ha mai invitato a rifiutare gli ordini dell’esercito ma, afferma il suo ‎portavoce, Amit Gilutz, ritiene che sia illegale oltre che disumano sparare ai ‎palestinesi che pongono una minaccia per la vita dei ‎soldati‎. B’Tselem non nega il ‎diritto di Israele di difendere il suo confine ma ribadisce che lo Stato ebraico deve ‎osservare le norme internazionali per l’uso della forza. ‎«Avvicinarsi alle barriere e ‎persino danneggiarle non fornisce i presupposti per l’uso di forza letale…che – ‎ricorda il centro per i diritti umani – è limitato a situazioni che comportino un ‎pericolo mortale tangibile e immediato e solo in assenza di altre alternative‎».‎ La reazione del ministro Lieberman è stata furiosa. Ha definito “sobillazione” l’appello ‎dell’ong israeliana da lui descritta come un gruppo di ‎«mercenari che agiscono dietro finanziamento di ‎fondi stranieri, mercenari intenti a colpire lo stato di Israele».

‎ È assai improbabile che ufficiali e soldati israeliani accolgano l’invito di ‎B’Tselem e comunque nell’accampamento “Abu Safieh” neppure conoscono il ‎centro israeliano per i diritti umani. La vita sembra scorrere normale, come se ‎domani ad attendere i partecipanti alla Marcia del Ritorno non ci fosse un venerdì ‎di sangue. Si puliscono i bagni chimici, le donne portano acqua e cibo, una Ong ‎locale monta una postazione medica, qualcuno prova ad attivare il collegamento a ‎internet. Più in fondo dei ragazzi giocano a calcio. ‎«La mia famiglia vorrebbe ‎vedermi diventare un architetto» dice Nidal Abu Shabaan, uno studente ‎universitario, ‎«lo desidero anche io ma non voglio essere un architetto ‎prigioniero. Per questo sono qui, per essere libero».‎