È una corsa contro il tempo per salvare Gaza da una nuova ondata di bombardamenti e attacchi. Occorre una estensione della tregua di 72 ore cominciata martedì alle 8. La delegazione israeliana è tornata al Cairo soltanto ieri sera e nelle poche ore che mancano alla fine del cessate il fuoco sarà impossibile trovare un’intesa. In Egitto gli israeliani sono andati all’unico scopo di riferire all’intelligence locale – che gestisce i negoziati indiretti – la risposta del governo Netanyahu alle richieste per una fine duratura dell’offensiva israeliana contenute nella posizione comune inter-palestinese elaborata domenica. La strada è lunga e il pessimismo prevale in queste ore. Ieri abbiamo telefonato a colleghi e conoscenti palestinesi a Gaza che ci hanno riferito che tra la gente regna la certezza di una ripresa degli attacchi israeliani, non appena il negoziato al Cairo avrà esaurito tutte le sue possibilità.

Liberare la Striscia

È enorme la distanza tra Israele e i palestinesi. Scriviamo palestinesi e non Hamas perché le richieste presentate ai mediatori egiziani non sono più del movimento islamico ma della gente di Gaza e nel resto dei Territori occupati. Anche l’Anp del presidente Abu Mazen, liberandosi dai lacci delle pressioni occidentali che di solito la paralizzano, è schierata dietro l’obiettivo di liberare un milione e 800mila abitanti di Gaza dall’assedio israelo-egiziano, di aprire i valichi al passaggio di merci ed esseri umani, di permettere ai pescatori di gettare le reti fin dove lo consente il diritto internazionale, di eliminare il blocco navale e altro ancora. Tel Aviv e il Cairo non hanno alcuna intenzione di permettere a Gaza di diventare un territorio libero e non più una prigione per quasi 2 milioni di persone.
Israele però insiste per il disarmo di Hamas, al quale condiziona la ricostruzione di Gaza. Tutt’al più potrebbe accontentarsi di misure lungo la frontiera tra Gaza e l’Egitto, decise con il Cairo, che impediscano ad Hamas di riarmarsi.

I comandi militari israeliani sono certi di aver inferto all’ala militare del movimento islamico un colpo decisivo, di aver distrutto gran parte dei depositi di razzi e le gallerie sotterranee scavate dai combattenti di Ezzedin al Qassam a ridosso della linea di demarcazione tra Gaza e Israele. «Hamas è stata colpita duramente e l’esercito resta vicino al confine per proteggere il sud di Israele», ha commentato ieri il capo di stato maggiore Benny Gantz in un incontro con i comandanti che sono stati impegnati nell’operazione a Gaza.

Per Gantz «la tragica devastazione nella Striscia» è da attribuire solo ad Hamas. Come se gli F-16 che per oltre tre settimane hanno martellato la Striscia e i carri armati e pezzi di artiglieria che hanno raso al suolo Khuzaa, parte di Beit Hanun, Shujayea e Tuffah avessero sparato confetti e caramelle verso i centri abitati palestinesi e non bombe e proiettili.

Di fronte alle critiche sempre più aperte delle agenzie dell’Onu e delle organizzazioni umanitarie internazionali, Israele sta impegnando risorse ed energie umane per addossare ad Hamas e alle altre organizzazioni armate la responsabilità del massacro dei tanti civili palestinesi (circa il 75% delle 1875 vittime palestinesi). Ieri sera è sceso in campo lo stesso premier Netanyahu che ha fatto riferimento anche a informazioni e immagini raccolte da giornalisti stranieri, nei giorni scorsi a Gaza, per affermare che è Hamas la causa delle vittime civili poiché sparerebbe i suoi razzi da zone densamente popolate. «Siamo dispiaciuti profondamente per ogni singola vittima civile a Gaza, la responsabilità è di Hamas», ha detto durante un incontro con la stampa estera a Gerusalemme. Ha quindo parlato di risposta israeliana «proporzionata» alla minaccia di oltre 3mila razzi sparati da Gaza. Poi, facendo leva sui timori generali per le recenti conquiste territoriali dei qaedisti in Medio Oriente, ha paragonato le azioni degli uomini di Hamas a quelle dello “Stato Islamico” in Iraq e Siria.

Nuove condanne

Lo sforzo mediatico fatto da Netanyahu per scaricare ogni resposabilità sugli islamisti – raddoppiato di fronte all’invito rivolto dall’ex presidente Usa Jimmy Carter al mondo di non boicottare ma di riconoscere Hamas – si scontra con la drammatica realtà di Gaza e non convince gli organismi umanitari internazionali. Nuove condanne sono giunte ieri dall’Assemblea generale dell’Onu dove hanno parlato l’Alto Commissario per i Diritti Umani Navi Pillay, il capo dell’ Unrwa, Pierre Krahenbuhel e l’inviato Onu in Medio oriente, Robert Serry. «Al 5 agosto, sono stati uccisi 1.350 civili palestinesi, di cui oltre 400 bambini», ha confermato Pillay.
La tregua sta facendo emergere in tutta la sua gravità il quadro dei danni che le infrastrutture e le abitazioni civili di Gaza hanno subito in oltre tre settimane di raid aerei, cannoneggianenti dal mare e tiri di artiglieria, in particolare a Beit Hanun, Shujayea, Khuzaa, Tuffah. Secondo i dati diffusi dalle Nazioni Unite, 10.690 abitazioni palestinesi sono state distrutte o hanno subito danni irreparabili. Altre 5.435 sono al momento inabilitabili. Ciò vuol dire che 520mila palestinesi sono sfollati. Un milione e mezzo di persone, ossia quasi tutta la popolazione di Gaza, non ha accesso o ha un accesso limitato all’acqua potabile. Manca anche l’elettricità. Quel poco di energia ancora disponibile dopo le cannonate che hanno fermato l’unica centrale elettrica, permette una distribuzione tra le 2 e 4 quattro ore al giorno.

A settembre i palestinesi contano di raccogliere donazioni per 6 miliardi di dollari. Sperano nella generosità (pelosa) nelle petromonarchie arabe. Qualcuno ricorda che nel 2009, al termine dell’operazione israeliana «Piombo fuso», ai palestinesi furono garantiti 5 miliardi di dollari ma solo una parte dei fondi promessi raggiunsero effettivamente Gaza perché a governarla era Hamas. Israele e altri paesi riuscirono a congelare le donazioni con la motivazione che quei fondi avrebbero potuto finanziare il «terrorismo».

Adesso c’è un unico governo, tecnico e di consenso nazionale, in Cisgiordania e Gaza, eppure restano deboli le possibilità che i palestinesi possano ottenere, ricevere e usare liberamente i finanziamenti per la ricostruzione.