Alcuni giorni fa, dall’archivio smisurato del mio computer è sbucata una specie di poesia, titolata Gaza, datata 9 gennaio 2009. Certo, ricordavo di averla scritta e in pieno «Piombo fuso». Tre giorni prima un raid dell’esercito israeliano aveva colpito una scuola dell’Unrwa e ucciso quaranta persone, delle trecentocinquanta sfollate dal campo profughi di Jabaliya. La ricordavo, quella specie di poesia, ma non l’avevo mai più riletta. Lo ho fatto e la sua attualità mi ha provocato un senso d’angoscia quasi insostenibile.

«Disperanti/ i corpicini avvolti/ in candidi sudari/ che la calcolatrice impazzita della strage/ moltiplica giorno dopo giorno./ Disperanti/ i pianti senza lacrime/ di donne orfane di prole/ che al cielo gridano/ maledizioni e strazio./ Disperanti/ perpetui fuochi d’artificio/ arricchiti da fosforo bianco/ apogeo della festa macabra/ di un demone perverso./ Più d’ogni cosa/ disperanti/ questi signori/ magari un tempo ribelli/ che discettano compunti/ le ragioni degli uni e degli altri/ – degli uni più che degli altri -/ impermeabili al dolore/ allo scempio dei corpi/ ai cadaveri insepolti/ ai feriti senza speranza/ alle case e alle moschee/ alle scuole e agli ospedali/ ridotti in polvere./ E voi palestinesi/ come pretendete di chiamarvi/ arabi pezzenti/ incivili/ bigotti/ integralisti/ voi che credete ancora/ che i bambini sono bambini/ che la fame è sempre fame/ che la sete è sempre sete/ che la guerra è sempre guerra/ che la morte è sempre morte/ piegatevi infine/ al nuovo ordine mondiale/ oppure perdio/ non inceppate/ la macchina del massacro».

Attuale è non per qualità dei versi, né per lungimiranza mia, ma per l’automatismo ripetitivo della macchina bellica israeliana e per l’impotenza colpevole della «comunità internazionale», capace solo d’imporre qualche effimera tregua nel lungo ciclo dell’assedio della Striscia di Gaza e dell’occupazione dei territori palestinesi. Da «Inverno caldo» a «Piombo fuso», fino a «Margine protettivo», lo schema è lo stesso, una coazione a ripetere che ha del patologico: un osceno replay, lo ha definito Robert Fisk, di ciò che è già successo in passato, ma del quale non si conserva memoria.

Molti articoli del gennaio 2009 sono perfettamente sovrapponibili a quelli di oggi. E non solo perché, oggi come ieri, si bombardano ospedali, campi-profughi, interi quartieri, e le scuole dell’Unrwa sono tra i bersagli prescelti. Non solo perché, oggi come ieri, il sistema sanitario di Gaza è al collasso e gli abitanti sono ormai quasi privi d’elettricità e d’acqua. Ma anche perché identico è lo schema della narrazione dominante, cosicché gli autori di quei vecchi articoli avrebbero potuto – forse lo hanno fatto – limitarsi ad aggiornare le date e qualche dettaglio. Io stessa, in fondo, per quanto tutt’altro che mainstream, sono vittima della coazione a ripetere, se è vero che in un articolo per Liberazione del 20 gennaio 2009, a proposito di «Piombo fuso», denunciavo «la sconcertante coazione a ripetere».E simili sono il ruolo e il comportamento di Hamas, se non fosse per il nuovo regime egiziano, che l’ha resa ancor più debole politicamente. Perfino i numeri sono comparabili: «Piombo fuso» fece 1417 morti in 22 giorni; «Margine protettivo» ha ucciso finora non meno di 1031 palestinesi in una ventina di giorni.

In un articolo sul manifesto di alcuni giorni fa, ottimo come tutti i suoi, Angelo d’Orsi denunciava «il silenzio degli intellettuali». Angelo, potrei dirgli, certi/e intellettuali non mediatizzati, perciò ignorati o svalutati perfino in ambienti della sinistra detta radicale, forse non hanno più parole che non siano consunte. E se mai ne avessero, di nuove e incisive, esse non avrebbero alcuna risonanza. E perciò si limitano a partecipare a cortei e a sottoscrivere appelli, anche per non rischiare di diventare, pure loro, maschere d’una tragica commedia dell’arte.