Un boato enorme da far tremare i polsi, poi si è sollevata una enorme nuvola di fumo nero, ‎come un fungo. In un attimo il “Messhal Building” e il suo centro culturale, che in questi anni ‎ha ospitato anche una commemorazione per Vittorio Arrigoni e la rassegna cinematografica ‎Nasra, si è trasformato in un cumulo di macerie. Per fortuna era vuoto in quel momento e non ‎ci sono stati morti, solo qualche ferito. Le cose erano andate in modo ben diverso il mese ‎scorso quando i missili sganciati da un caccia israeliano avevano sbriciolato il Katiba Building ‎e ucciso due ragazzini che giocavano davanti all’edificio. I morti però non sono mancati ieri. ‎Enas Khammash, 23 anni, e la sua figlioletta Bayan di 18 mesi, sono state uccisi prima ‎dell’alba da un bombardamento israeliano nella loro abitazione a Jafarawi.

‎ La distruzione del Messhal Building è stato un segnale preciso delle intenzioni del governo ‎Netanyahu e dei comandi militari israeliani di andare all’escalation, annunciata da oltre 150 raid ‎aerei tra mercoledì notte e ieri. Se non addirittura a quell’offensiva più vasta di quella ‎devastante del 2014 di cui si parla ormaid a settimane. Nonostante gli appelli alla calma lanciati ‎dall’Onu e le preoccupazioni espresse da più parti, ieri sera la diplomazia appariva ferma al ‎palo. Un filo sottile separava Gaza dal nuovo massiccio attacco israeliano che anche i leader ‎di Hamas hanno fatto poco per evitare, convinti che sia in atto solo una “sparatoria calcolata”. ‎Il movimento islamico ieri ha accusato Israele di voler sabotare i colloqui in corso, mediati da ‎Onu ed Egitto, per arrivare alla tregua. Un suo rappresentante, gettando il pallone nella metà ‎campo di Israele, ha proclamato l’escalation terminata da parte palestinese. Ma se i lanci di ‎razzi e colpi di mortaio si sono fatti meno intensi nel corso della giornata comunque non sono ‎mai cessati del tutto. Circa 200 in meno di 24 ore che hanno tenuto nei rifugi migliaia di ‎israeliani e provocato danni a Sderot e il ferimento di 26 persone, una delle quali, una donna, ‎in modo serio. Ad un certo punto, nel pomeriggio, nella spirale di attacchi e rappresaglie, il ‎braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzedin al Qassam, hanno sparatoun razzo Grad con una ‎gittata di 40 km per la prima volta dal 2014 contro la città di Bersheeva dove è caduto senza ‎fare danni.

Il governo Netanyahu ha quindi ordinato alle forze armate di intensificare gli attacchi aerei e ‎di inviare mezzi corazzati verso Gaza. Sono state installate batterie anti-razzo “Iron Dome” nel ‎centro di Israele e avviate le misure per l’accoglimento di sfollati dai centri abitanti a ridosso di ‎Gaza. Non pochi analisti ripetono che il governo israeliano è poco incline ad avviare una ‎nuova campagna militare per i lanci di palloni incendiari da Gaza. In caso di guarra i razzi di ‎Hamas sarebbero molti più pericolosi dei palloni, spiegano. Ma sulle decisioni dei vertici della ‎politica e delle forze armate pesano due fattori: le forti pressioni di una parte degli israeliani ‎che vivono intorno a Gaza e dell’opinione pubblica, e gli appelli al ‎«ripristino del potere di ‎deterrenza». Il sindaco di Sderot, Alon Davidi, ha invocato un attacco immediato. ‎«Occorre ‎riportare la calma nella zona e solo un’operazione militare riuscirà ad ottenere questo ‎risultato», ha detto Davidi. Per la guerra si è schierato l’ex generale Uzi Dayan. ‎«Spero in ‎un’operazione a Gaza, è qualcosa che deve essere fatto perché la nostra deterrenza è stata ‎erosa. Il cessate il fuoco non basta, Hamas continuerà a operare sotto la soglia di una nostra ‎risposta. Ed è ora di mettere fine a tutto ciò», ha detto Dayan all’agenzia online dei coloni ‎israeliani Arutz Sheva, esortando poi l’esercito a mettere fine al potere di Hamas a Gaza. ‎

‎ Un bagno di sangue è dietro l’angolo e il mondo resta indifferente riguardo ai motivi che ‎stanno portando al nuovo conflitto. Motivi che restano sullo sfondo, oscurati dalle notizie di ‎bombardamenti e lanci di razzi e dagli scambi di accuse. Due milioni di palestinesi vivono ‎senza libertà sotto un rigido blocco israeliano cominciato dopo la cattura del soldato Ghilad ‎Shalit nel 2006 e che si è intensificato l’anno dopo quando Hamas ha preso il potere a Gaza. ‎Dodici lunghi anni in cui questo fazzoletto di meno di 400 kmq di territorio palestinese ha ‎subito tre grandi offensive militari israeliane e ha visto il progressivo peggioramento delle ‎condizioni di vita della popolazione e dei servizi essenziali, come la sanità. Senza dimenticare ‎la ridotta (a dir poco) distribuzione di energia elettrica e la mancanza di acqua potabile. Due ‎giorni fa l’Onu, attraverso il suo rappresentante locale per gli affari umanitari, ha rivolto un ‎appello a Israele affinché faccia entrare il carburante, fondamentale per il funzionamento dei ‎generatori degli ospedali e di altri servizi essenziali per la popolazione. ‎