I civili palestinesi sono sempre le prime vittime del riesplodere della tensione lungo le linee di demarcazione tra la Striscia di Gaza e Israele. Lo sanno bene i genitori che, alla vigilia di Natale, nel campo profughi di al Maghazi, hanno visto morire la loro bimba di 4 anni in un bombardamento aereo seguito all’uccisione di un manovale del ministero della difesa israeliano da parte di un cecchino. Lo sanno bene tutti gli abitanti di Gaza costretti, ancora una volta a fare, a meno dell’elettricità per gran parte del giorno e della notte. Le turbine dell’unica centrale elettrica della Striscia si sono fermate ieri mattina a causa della mancanza di gasolio, 12 giorni dopo aver ripreso a funzionare.

L’emergenza scattata prima di Natale per il maltempo e l’allagamento di molte aree a nord di Gaza (5mila evacuati), aveva spinto il Qatar a donare 10 milioni di dollari per l’acquisto in Israele del gasolio per Gaza, in sostituzione di quello egiziano sparito dai distributori palestinesi a causa delle misure restrittive decise dal Cairo. Il carburante perciò era finalmente tornato a Gaza, permettendo di riavviare la centrale elettrica e di alleviare i disagi per 1 milione e 700mila civili. Dopo l’uccisione del manovale, il governo Netanyahu ha ordinato di tenere chiuso il valico di Kerem Shalom, attraverso il quale entrano a Gaza merci, generi di prima necessità, benzina e gasolio provenienti da Israele. Poi il ministro della difesa Moshe Yaalon ha annunciato che il valico resterà chiuso fino a nuovo ordine. Per i responsabili della centrale elettrica di Gaza non è rimasto altro da fare che fermare di nuovo le turbine: dalle 12 ore quotidiane di energia elettrica disponibile, si passerà a circa la metà. In pratica Gaza potrà contare solo dalle limitate forniture di elettricità che arrivano da Israele ed Egitto. Il blocco della centrale peraltro ripropone l’emergenza ambientale poichè rende intermittente il funzionamento degli impianti per il trattamento delle acque reflue. Nelle settimane passate, le acque nere si sono riversate nelle strade di Gaza, rendendo insostenibile la situazione igienico-sanitaria e accrescendo il rischio di diffusione di malattie infettive.

Non meno grave per Gaza è il blocco praticato dalle nuove autorità egiziane figlie del colpo di stato militare dello scorso 3 luglio che ha deposto il presidente islamista Mohammed Morsi e messo fine al governo dei Fratelli Musulmani. Con la distruzione dei tunnel tra Gaza e il Sinai, la fine dei traffici sotterranei e la chiusura, quasi permanente, del valico di Rafah, il Cairo sta facendo pagare alla popolazione palestinese l’alleanza stretta mantenuta da Morsi con il movimento islamico Hamas che controlla la Striscia. Non solo. L’Egitto blocca anche l’ingresso a Gaza, attraverso Rafah, dei convogli umanitari e delle delegazioni internazionali. Ieri sera erano ancora fermi al Cairo i 34 italiani, guidati dal giornalista Maurizio Musolino, della delegazione “Per non dimenticare…il diritto al ritorno”, attesi a Gaza in occasione del quinto anniversario dell’offensiva israeliana “Piombo fuso”. «Nei mesi scorsi abbiamo preparano tutti i documenti che (gli egiziani) ci avevano chiesto e dal Cairo è anche giunto il via libera all’ingresso a Gaza attraverso Rafah. Tuttavia una volta giunti in Egitto le cose sono cambiate e ora ci tengono bloccati ad attendere l’ok definitivo», ci riferiva ieri sera Maurizio Musolino.

Domani è prevista la scarcerazione di 26 detenuti politici palestinesi da parte di Israele. E’ il terzo gruppo che Netanyahu si è impegnato a rimettere in libertà nel quadro delle intese raggiunte a luglio per la ripresa del negoziato diretto israelo-palestinese. Alla scarcerazione seguirà l’annuncio della costruzione di altre 1400 case per i coloni israeliani nei Territori occupati. Era accaduto lo stesso durante la liberazione dei primi due scaglioni di prigionieri palestinesi. A nulla sono serviti i (timidi) ammonimenti lanciati dagli Usa e dall’Ue al premier israeliano, un aperto sostenitore del movimento delle colonie. Il 4 gennaio tornerà a Gerusalemme il segretario di stato John Kerry, alla sua ennesima missione nella regione, intenzionato, secondo le indiscrezioni che girano da settimane, a persuadere israeliani e palestinesi a firmare al più presto un accordo-quadro. Lo scetticismo prevale e in casa palestinese cresce l’insoddisfazione per l’atteggiamento del capo della diplomazia statunitense che nelle ultime settimane sembra aver abbracciato con ancora più decisione le posizioni israeliane, specie nelle questioni di sicurezza.