La carne, la morte, il diavolo sarebbe un bel titolo, paradigmatico e giustamente flamboyant, adatto anche a una storia del romanzo americano sudista (Messico compreso) da Faulkner in poi. «Joe No College» (uno senza istruzione) può dirsi quel tipo di romanziere, così frequente in America, senza grande esperienza di scuole o mediazioni concettuali che non sia la memoria collettiva, fecondata dall’immaginario biblico, moderno cantastorie di antichi delitti commessi sotto il cielo delle immense praterie e nelle buie foreste. Sono romanzi forgiati sull’incudine del naturalismo regionale. (Non vanno dimenticate le donne – Porter, O’Connor, Welty – che invece declinarono sottilmente mediazioni simboliche e antropologiche della narrazione popolare).
Vangelo nero di Cormac
Se la carne e la morte ebbero largo seguito romanzesco, per un diavolo che non fosse solo una presenza volatile del gotico americano ma sostanza della narrazione, un vero deus ex machina, si attese fino al 1985 quando uscì il vangelo nero di Cormac McCarthy, Meridiano di sangue o Rosso di sera nel West che chiude con la trionfante danza infernale. La violenza ctonia di quelle terre battezzate con il sangue si manifesta estrema e immediata nell’innocenza bestiale del ragazzo senza nome «The Kid», anche senza volto o individualità, che vive con brutale irruenza la sua epopea tribale. Che sia modernista e/o metafisico, Meridiano di sangue – vedi Briasco, Americana (minimum fax 2016) – segna il superamento del mito ingenuo della frontiera, e offre l’esempio di una prosa arricchita da finezze sintattiche, lessicali, metaforiche – eredità delle rigogliose pagine di Faulkner. I personaggi del nuovo western non mutano mai, sono unidimensionali; privi di vita interiore, non pensano ma credono nel gesto, nel sangue, nel vuoto elementare del mondo. Azzera ogni speranza il finale della Strada: il disegno cosmico è più antico dell’uomo, misterioso; oscuri segni oracolari si leggono sul dorso dei vermicelli: «Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto».
La severa lezione di Cormac – come è affettuosamente chiamato Mc Carthy dalla generazione più giovane – è avvertita anche da William Gay (1941-2012), scrittore ancora poco noto da noi, del quale esce adesso il primo romanzo L’ombra di casa (The Long Home, 1999), vincitore del Michener Memorial Prize (traduzione di Alessandro Mari, Bompiani «Letteratura straniera», pp. 275, € 18,00). Gay è nato del Tennessee come l’amato e riverito Cormac (anche Johnny Cash è di quelle parti) in una famiglia di braccianti, e vi ha trascorso quasi tutta la vita, eccetto brevi parentesi in Vietnam, a New York e Chicago. Da bravo «Joe No College», Gay ha fatto il carpentiere e l’imbianchino, ha letto tanto Shakespeare (un «Joe No College» anche lui), ha dipinto (paesaggi, suppongo), ha scritto racconti e romanzi, articoli sulla musica country e i blues – la Nashville di Altman è anche la capitale del Tennessee.
L’occhio del pittore
Sono l’occhio del pittore e l’orecchio del musicologo a guidare la mano del Gay narratore. La bellezza è Amber Rose, seduta a gambe divaricate, le bianche cosce esposte. «Aveva capelli neri grossi e lucenti come la criniera di un cavallo ben strigliato, e le cadevano dritti fin sotto le spalle come se fossero appena stati tagliati di netto». Il sesso è mediato dal disgusto puritano. Qualcuno più che udire avverte «la carne che si adagiava sulla carne, fuori dal tempo, la protesta delle molle del letto, un rantolo involontario…». Il paesaggio è argenteo e luminoso sotto la neve, nero e vorace all’improvviso, demonico; il temporale è la sferza dell’ira divina che annulla l’esistente in una notte senza fondo. «Dopodiché all’improvviso, al posto del mondo ecco la sua negazione, il buio assoluto, come se il sottotetto e il suo frugale mobilio fossero stati inghiottiti da un vortice e consegnati al niente, l’antitesi dell’essere…». La morte è un teschio barocco che spunta dalla terra scavata e vuole giustizia. «Quello che si trovò tra le dita era un teschio umano. Ricoperto di muschio e di fango, una salamandra accoccolata nell’orbita, piantine di pervinca ancorate peggio di sanguisughe all’osso consumato. Strati più chiari di muschio attaccati alla calotta cranica. Quando Oliver lo guardò dall’altro lato, il teschio parve prendersi gioco di lui – la mandibola era bloccata in un ghigno malinconico, e tra melma e licheni ecco due denti d’oro così misteriosi e ammalianti». E giustizia sarà fatta alla fine dal vecchio William Tell Oliver – forse un angelo troppo critico nei confronti del boss, ma pur sempre sensibile alla potenza segreta della natura. «La realtà attorno a Oliver era una realtà gravida, pervasa dal senso d’urgenza portato dal vento. Muti lampi si palesavano dal nulla, una luminescenza enigmatica nel verde irreale della boscaglia…».
Rovesciata la «morality»
Gay ha rovesciato la morality medievale che è lo schema allegorico di Meridiano di sangue: il ragazzo Winer, l’innocente carpentiere, insidiato e sfregiato nel volto dal sicario del diabolico Dallas Hardin, si perde nel vasto grembo dell’America. Il diavolo di Gay non è metafisico ma umano, anzi shakespeariano: Riccardo III e Macbeth hanno suggerito frasi, gesti, imprese del malvagio assoluto. Dallas Hardin si muove come un uccello, «tutto spigoli e giunture, un essere sgraziato», nella eterna camicia gialla, avanzo dell’antico splendore di angelo caduto, sempre elaborando la sua rete di malvagità a danno di uomini e animali che per loro sfortuna lo avvicinano. Non teme niente e nessuno. «Ha detto che era un uomo nato morto». Come Riccardo III tiene in suo potere la giovane Amber Rose per fini anche più crudeli di quelli del famigerato re. Escogita all’improvviso trappole mortali, progetta con intelligenza ogni sorta di nefandezze, sparge la sua nera magia ovunque; sempre lucido e scattante, «come se lui di tanto in tanto dimorasse in un mondo dove tutto era più intenso, i suoni più nitidi, i colori più vividi e luminosi, come se per un momento si muovesse in un mondo di meraviglie allucinatorie. Come se non fosse mai vivo del tutto tranne quando si trovava vicino al limite». La lotta tra il bene e il male è combattuta dalle due figure delegate, Oliver e Hardin, isolate al centro della pathomachia. L’irrisolta inefficacia della legge umana, l’assenza di spiritualità nei personaggi che strisciano raso terra, caricano invece la natura di vorticosa volontà, indomabile energia, destino che si impone sulla debolezza del vivente. William Gay riconosce nella grande terra americana l’impronta del divino: le sue improvvise, sublimi apparizioni, rivelano quella bellezza che sfida la corruzione della degenerante natura naturans. La sua scrittura vorrebbe essere un omaggio.