L’accordo finalmente raggiunto a Kimbali in Ruanda nell’ambito del Protocollo di Montreal per la messa al bando degli HFC (idro-fluoro-carburi), completa il quadro dell’accordo di Parigi sul clima. Lo fa, anche se in misura minore delle aspettative: l’eliminazione completa di queste sostanze è prevista infatti solo nel 2047. Nonostante i limiti legati alla lentezza del phase-out degli HFC, l’accordo raggiunto, legalmente vincolante, è comunque un importante passo avanti. Gli HFC, classe di composti chimici messi in commercio per sostituire i gas buca-ozono (i CFC, cloro-fluoro-carburi e i meno potenti HCFC), sostanze utilizzate per lo più nel settore della refrigerazione, non bucano lo strato d’ozono ma sono potenti gas a effetto serra. Se non se ne interrompesse la produzione, è stato stimato che nel 2050 questi gas potrebbero pesare per il 27% delle emissioni di gas a effetto serra. Era ora che si arrivasse a questo accordo dopo ben otto anni di negoziati: ma la campagna per eliminare gli HFC era iniziata già negli anni ’90.

Pochi sanno che se oggi comprate un frigorifero in Europa o in Cina al 90% comprate un frigorifero che contiene refrigeranti naturali (miscele di idrocarburi) alternativi sia ai CFC che agli HFC. Questo è frutto di una lunga campagna di Greenpeace per promuovere uno standard ambientalmente accettabile, il «Greenfreeze», che utilizza miscele di idrocarburi sia come refrigeranti che per le schiume isolanti: non solo azioni dirette nonviolente più o meno spericolate dunque, ma anche una spinta attiva a trovare soluzioni positive.

Erano gli inizi degli anni ’90 e Greenpeace riuscì a convincere una piccola industria dell’ex Germania Est a investire i fondi resi disponibili per la riunificazione tedesca nel miglioramento di un frigo che usasse miscele di idrocarburi, cioè la vecchia tecnologia usata prima che, alla fine degli anni ’20 fossero diffusi i CFC. Successivamente la campagna portò i colossi tedeschi ed europei a cominciare a produrre frigocongelatori basati sullo standard Greenfreeze. Nel 1997 la campagna si spostò in Cina e, da allora ad oggi, la produzione cinese di frigoriferi basati su refrigeranti naturali è divenuta largamente prevalente. Oltre ai frigoriferi la campagna si è poi spostata sui condizionatori – coinvolgendo anche l’industria italiana – e alla refrigerazione commerciale e industriale. Solo per ultimo si è aperto allo standard Greenfreeze anche il mercato Usa, una cui multinazionale controlla i brevetti di gran parte degli HFC.

Il motivo fondamentale di questa campagna era legato anche al fatto che il Protocollo di Montreal, entrato definitivamente in vigore nel 1996, consentiva ai Paesi in via di sviluppo di continuare a usare per 10 anni i CFC (ormai con i brevetti scaduti); l’alternativa allora disponibile ai CFC erano gli HFC, prodotti da un pugno di multinazionali della chimica, sostanze per ile quali ovviamente si dovevano pagare i brevetti. Dunque Paesi come la Cina o l’India avrebbero continuato a usare i CFC – gas buca-ozono ma anche potenti gas a effetto serra. Con lo sviluppo di una tecnologia basata su refrigeranti naturali – privi dunque di brevetto – si consentiva una alternativa a costi inferiori e ambientalmente positiva: oggi sono 850 milioni i frigoriferi basati su refrigeranti naturali e nel 2020 il 75-80% della produzione globale sarà basata su questo standard. Nel 2000 fu poi sviluppato un frigorifero solare per conservare i vaccini nei Paesi caldi, il Solar Chill, che Greenpeace donò all’Unep, il programma ambientale delle Nazioni unite che ne ha poi disseminato 15 mila in villaggi africani.

Oggi l’industria chimica propone come alternativa agli HFC un’altra classe di sostanze – gli HFO (idro-fluoro-olefine) cui Greenpeace si oppone: in atmosfera si decompongono in TFA (acido trifluoroacetico) composto tossico che impatta sugli ecosistemi acquatici ed essendo 10 volte più costosi dei refrigeranti naturali potrebbero innescare un mercato nero degli HFC, vanificando in parte l’accordo. La battaglia sulle alternative continuerà dunque: l’industria chimica deve smettere di proporre soluzioni che presentano poi dei costi pagati in termini di contaminazione ambientale.
* Direttore Greenpeace Italia