«Tre anni fa abbiamo denunciato la Shell perché qui con la sua attività di estrazione del gas mette in pericolo la vita delle persone. Poi abbiamo continuato a fare pressioni e finalmente a metà 2017 è stata aperta un’indagine, ma non sappiamo cosa stia accadendo».

Coert Fossen è un esponente di spicco dell’organizzazione Groninger Bodem Beweging. Nata nel 2009, con i suoi oltre 4mila aderenti è la realtà più numerosa e attiva nel contrastare i danni subiti dai territori e dalle comunità a causa dello sfruttamento del gas nella regione di Groningen, nel nord dell’Olanda, dove nel 1959 è stata scoperta la riserva di questo combustibile fossile più ricca di tutta l’Europa occidentale.

Ora nel punto dove è nato il primo giacimento nel 1963 c’è una statua che raffigura le molecole di gas che si scorge facilmente percorrendo l’autostrada.

DI CAMPI D’ESTRAZIONE e annesse infrastrutture al momento ne esistono un’ottantina, gestiti dalla Nam, consorzio composto dall’anglo-olandese Shell e dalla statunitense ExxonMobil. Al governo olandese il gas ha fruttato un mucchio di quattrini: 417 miliardi di euro dal 1963 a oggi. Negli anni Ottanta circa il 15% delle entrate statali derivava dai giacimenti dell’area di Groningen.

Il 16 agosto 2012, però, un terremoto del 3,6 scala Richter ha cambiato in maniera definitiva la percezione quanto meno della popolazione locale sullo sfruttamento della preziosa risorsa. Da quel momento i sismi sono aumentati di numero, con picchi oltre i 3 gradi – l’ultimo lo scorso 22 maggio – e le abitazioni impattate si sono contate a migliaia. Di pari passo è cresciuta la protesta. In uno spicchio d’Olanda abitato da circa 170mila persone, si sono registrate anche 15mila presenze in piazza.

Lo Stato, oltre ad ammettere che i terremoti sono causati dall’attività estrattiva, sembra aver finalmente deciso di porre un limite alle attività di Shell ed ExxonMobil. «A marzo del 2018 le autorità hanno deciso di fissare uno stop definitivo per il 2030. Io non escludo ci possano essere dei ritardi perché prima bisogna sostituire le esistenti infrastrutture per far passare il gas russo, che ha una percentuale più bassa di azoto rispetto a quello olandese», ci illustra l’economista George De Kam, co-autore dello studio condotto dall’Università di Groningen Gas Production and Earthquakes in Groningen.

Si ritiene che il gas che sarà lasciato nel sottosuolo ammonterà al 20% dei 2.740 miliardi di metri cubici (bcm) stimati alla fine degli anni cinquanta, per un valore che oscilla tra i 50 e i 120 miliardi di euro. Al momento la soglia di estrazione è di 19 bcm l’anno, ma nel 2013 era ancora 59. Il ministro dell’Economia Eric Wiebes ha ventilato la possibilità di portarla a 12. Ma anche questa promessa non lenisce la frustrazione della popolazione locale, che per anni si è sentita abbandonata dallo Stato e tradita dalle multinazionali.

KATHERINE STROEBE, DOCENTE di scienze sociali all’Università di Groningen, che dal 2016 sta conducendo uno studio sugli impatti patiti dalla popolazione locale, ci dipinge un quadro a tinte fosche della vita di tanti abitanti della regione. «Molti soffrono di palpitazioni, mal di testa e insonnia. Chiaramente più danni si sono sofferti, più incertezza per il futuro si prova e più si sta male, con alcuni che vanno letteralmente in burn out, come un lavoro aggiuntivo. I bambini sono tra i più colpiti, perché in tanti hanno paura che si possa verificare una vera catastrofe».

È facile immaginare che il mercato immobiliare sia crollato. «Le persone qui sono molto attaccate alla loro terra, al tipo di vita che conducevano fino a pochi anni fa, per cui sono in pochi ad andare via, anche se non sono rari i malumori e i litigi sul tema delle compensazioni», aggiunge la professoressa Stroebe. «C’è tantissima rabbia per come è stata affrontata la questione».

«Le istituzioni locali hanno avuto pochissima voce in capitolo sul problema, abbiamo solo potuto fare molta pressione sul governo, ma senza grande successo», attacca Eelco Eikenaar, fino a pochi mesi fa membro della giunta provinciale. «Lo Stato è intervenuto con forte ritardo, così in tanti hanno perso la speranza». Vari indicatori economici, compreso il tasso di disoccupazione di un paio di punti più alto della media nazionale (3,3%) sono lì a dimostrarlo.

La mole di ricorsi e richieste di risarcimenti è enorme, i dati ufficiali parlano di 30mila ricorsi, oltre 22mila case danneggiate e un centinaio per cui è già stato necessario l’abbattimento. Per la verità negli ultimi mesi qualche passo in avanti è stato fatto. Nel 2018 il governo ha costituito la Tijdelijke Commissie Mijnbouwschade Groningen, l’ente indipendente che deve far fronte all’emergenza in atto in questa parte dei Paesi Bassi.

LA PRECEDENTE SOCIETÀ di natura privata (con azionisti società del settore ingegneristico e assicurativo) aveva fatto poco e male per risolvere il problema, scatenando ancor di più l’ira dei residenti. «Non era realmente indipendente, le decisioni le prendeva ancora il consorzio Nam», chiarisce Jouke Schaafsma, dirigente della Commissie.

La transizione dal privato al pubblico ha fatto perdere oltre un anno, creando un arretrato di 12.500 ricorsi. «Per far fronte alle istanze del passato abbiamo dovuto allungare i tempi per l’esame dei nuovi ricorsi: abbiamo chiuso 9mila casi e già erogato 33 milioni di euro», chiosa Schaafsma.

Da Groningen in venti minuti di treno si arriva a Loppersum, tra le località più colpite dall’attività sismica. Appena fuori dalla piccola stazione si notano subito le case circondate da ponteggi o recinti perché danneggiate dalla lunga litania di terremoti verificatisi nel corso degli anni. Poco più in là c’è l’albergo che doveva chiudere per un anno ma per ora è rimasto aperto, in attesa si dipani il guazzabuglio amministrativo.

Nonostante le “ferite”, Loppersum rimane un vero e proprio idillio agreste, punteggiato da case in mattoncini rosso scuro di massimo due piani con i tetti ricoperti da tegole nere o grigie. In lontananza si stagliano anche delle pale eoliche, ormai viste anch’esse come un problema e non come la soluzione.

L’OPPOSIZIONE alla prevista costruzione di altri parchi eolici sembra infatti confermare come il processo di transizione energetica si stia sviluppando senza consultare la popolazione locale. Quasi tutti i nostri interlocutori ci parlano addirittura di minacce di morte nei confronti dei responsabili del progetto.

Al di là di questi gesti estremi, la sensazione è che qui le persone ne abbiano abbastanza che tutto sia calato dall’alto. L’esperienza del gas, visto prima come una benedizione e poi vissuto come una condanna, ha radicalmente cambiato l’atteggiamento nei confronti delle autorità.

Anche il «campione nazionale» è sotto attacco. L’organizzazione Code Rood ha lanciato una campagna dal titolo molto esplicativo Shell must fall, Shell deve cadere, ma è tutto il fronte ambientalista che chiede conto all’azienda degli impatti delle sue attività in Olanda e nel resto del mondo.

Ormai le assemblee degli azionisti Shell, la più grande multinazionale europea per capitalizzazione (nel 2018 ha mandato in archivio un fatturato di 388 miliardi di euro), sono sempre più movimentate e chissà che prima o poi, con la montante urgenza della crisi climatica, qualche risultato concreto si possa cominciare a vedere.

*RE-Common