Un piano pieno di buchi. Che sulla carta avrebbe dovuto ridurre drasticamente le trivellazioni in mare e in terra, e nella realtà invece riesce a non intaccare le aree di estrazione di gas e petrolio produttive.

ENTRO FINE MESE sarà pubblicato il cosiddetto Pitesai, il tanto atteso documento che dovrebbe una volta per tutte dare un senso alla politica estrattiva italiana. Per gli ambientalisti italiani – che giusto pochi giorni fa si sono visti affibbiare dal ministro l’etichetta di «radical chic» perché si oppongono al nucleare – il senso dovrebbe essere solo uno: procedere speditamente verso l’opzione zero, e cioè lo stop alle trivellazioni. Nel rispetto di uno dei principi cardine della transizione ecologica: il rapido abbandono ai combustibili fossili, responsabili di emissioni nocive e climalteranti. Invece il Pitesai, pubblicato sul sito del ministero della Transizione ecologica, tutto questo non lo fa. Anzi, ribadisce l’importanza del gas e ne valorizza l’estrazione.

PITESAI E’ UN ACRONIMO che sta per «Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee». Uno «strumento di pianificazione generale» per «individuare le aree dove sarà potenzialmente possibile svolgere o continuare a svolgere le attività di ricerca, prospezione e coltivazione degli idrocarburi», con l’obiettivo di «valorizzare fortemente la sostenibilità ambientale, sociale ed economica». Il piano è stato reso pubblico a metà luglio, e settimana prossima scadranno i 60 giorni entro i quali enti locali e associazione possono inviare le loro osservazioni. Poi, entro il 30 settembre, sarà compito del ministero leggere tutto quello che è stato inviato, integrare, correggere, e portare il testo di fronte alla Conferenza Stato-Regioni, che dovrà dare il via libera. Obiettivo generale: una (impossibile) quadratura del cerchio tra le esigenze dei settori dell’upstream italiano, quelli legati alla produzione di gas naturale e petrolio, e le ragioni dell’ambiente.

I PROBLEMI NASCONO GIÀ sulle tempistiche. Come farà in pochi giorni il Ministero della Transizione ecologica a valutare sensatamente la mole di osservazioni che stanno arrivando e, nello stesso tempo, trovare un accordo con le Regioni? La risposta che si danno gli ambientalisti è semplice: probabilmente il Pitesai non sarà pubblicato come da previsioni di legge entro il 30 settembre. Nel qual caso si creerebbe un «buco nero» all’interno del quale potrebbe succedere di tutto, compresi blitz per avviare vecchi iter e fare ripartire quei 40 permessi di ricerca di idrocarburi bloccati dalla moratoria del 2019. «Chiediamo che la moratoria sia prorogata fino pubblicazione del piano», dice Stefano Lenzi del Wwf. «Noi ci vediamo anche del dolo, perché Cingolani ha avviato la consultazione pubblica in estate, e non ci sta incontrando», attacca Alessandro Giannì di Greenpeace.

LA PRIMA COSA CHE FA IL PITESAI è definire i criteri per autorizzare o respingere i futuri permessi di prospezione o di ricerca di idrocarburi in mare e su terraferma. Con una novità: si potrà cercare solo il gas, basta petrolio. «Ma ormai di petrolio non ce n’è più, in pratica questo piano esclude la ricerca di quel che non c’è», dice l’abruzzese Augusto De Sanctis del coordinamento H2O. Per le valutazioni ci saranno criteri naturalistici, geologici ma anche urbanistici ed economici. C’è così la necessità di proteggere i parchi marini, ma anche quella di «valorizzare» le trivellazioni produttive, e di garantire «un importante utilizzo del gas». Senza contare il Ccs, il contestatissimo progetto di Eni per seppellire l’anidride carbonica delle industrie sotto il mare, in giacimenti esausti al largo di Ravenna. Il Pitesai lo cita legandolo a potenziali fondi per il riutilizzo delle piattaforme marine, quando invece l’Europa lo aveva escluso dai fondi del Pnrr.

IN SOSTANZA COSA CAMBIA? Con certezza non lo sa nessuno ancora, visto che nel Piano non c’è un elenco di aree precise da escludere dalle trivellazioni, ma solo una serie di criteri generali con numerose eccezioni e una valutazione finale lasciata al Ministero più in là nel tempo. «Più che criteri a noi sembrano linee guida scritte in fretta e furia, con tanti buchi», ragiona Andrea Minutolo, geologo e coordinatore scientifico di Legambiente. Esempio: l’Alto Adriatico, zona ad alta densità di trivellazioni, continuerà ad essere sfruttato nonostante subsidenza e vincoli naturalistici. Nei documenti del ministero ci sono delle percentuali, con ampie zone di mare che sarebbero escluse dalle trivellazioni ma, ragionano gli ecologisti, escludere porzioni di mare improduttive non è la svolta sul tema trivellazioni, anzi. «Questo non è un piano, è la conferma di quel che c’è in Italia in termini di sfruttamento degli idrocarburi. Confrontando i numeri – sostiene invece De Sanctis conti alla mano – a mare, rispetto alla situazione attuale, potranno essere allargate le aree sottoposte a concessione e permesso. Siamo al perforare di più».

L’ALLARME ORMAI E’ SCATTATO. «Solo pochi mesi fa il ministro Cingolani ha dato il via libera a nuove trivellazioni vicinissime al Delta del Po, zona naturalistica che non può permettersi di essere deturpata da attività di questo tipo», spiega Lorenzo Mancini di Legambiente Emilia-Romagna. «Nessuna trivella, senza eccezioni», gli fa eco il suo collega Luigi Lazzaro di Legambiente Veneto, impegnata anch’essa contro il progetto di trivellazione Teodorico. Altra zona che non sarà adeguatamente tutelata è quella marina a nord est della Sardegna, paradiso dei delfini. «Nel piano si parla di riperimetrazione – dice il Wwf – noi vogliamo chiarezza e una zona totalmente off limits per le trivelle».

IN BASILICATA, IN VAL D’AGRI (provincia di Potenza), gli attivisti sono spaventati da quel che potrà succedere alle concessione già attive per l’estrazione di petrolio sulla terraferma. «Per noi tutto cambierà in peggio, perché il piano non tiene in debito conto le risorse idriche che le trivellazioni mettono a rischio», spiega l’avvocata Giovanna Bellizzi di Mediterraneo No Triv. «C’è il via libera allo sfruttamento sine die degli idrocarburi», dice Luigi Agresti del Wwf che ricorda i 20 anni di danni ambientali e sociali delle attività petrolifere locali. La preoccupazione sta montando, e il 9 ottobre la Campagna nazionale per il clima fuori dal fossile manifesterà di fronte al Ministero della Transizione ecologica.

NON CI SONO SOLO GLI AMBIENTALISTI. A non capire cosa succederà è la Regione Emilia-Romagna, interessata più di altre visto l’alto numero di pozzi lungo le sue coste. Chiede «quali effetti potranno avere in termini di divieti, limitazioni o restrizioni» i criteri contenuti nel Pitesai. L’Arpa Lombardia nota che «le nuove attività che otterranno la concessione saranno nel 2040/2050 in piena attività di coltivazione, in contrasto con gli obiettivi della decarbonizzazione e dalla neutralità climatica». L’assessorato all’ambiente delle Marche scrive che i criteri «sono incentrati prevalentemente sulla sostenibilità economica, piuttosto che su quelle ambientale e sociale».

ASSORISORSE, CHE PER CONFINDUSTRIA riunisce i produttori degli idrocarburi, parla di «mancanza di chiarezza ed incompletezza di informazioni», senza le quali l’associazione non potrà dire la sua in maniera «consapevole».
Che fine faranno le 138 piattaforme estrattive offshore italiane, 77 delle quali in adriatico? E i 687 pozzi sparsi per tutta Italia, soprattutto in Emilia- Romagna, Sicilia, Toscana e Molise? Quando smetteranno di operare? Non c’è risposta. Non male per un piano che avrebbe dovuto segnare la svolta sulle trivellazioni, e che invece non riesce nemmeno a fissare una data per il loro stop generalizzato.