La pandemia Covid-19 sta costringendo buona parte della popolazione mondiale a restare a casa, mentre decine di milioni di persone si sono ritrovate senza lavoro da un giorno all’altro. Eppure, nel nord del Mozambico, l’industria del gas non sembra intenzionata a fermarsi.

LA COMPAGNIA PETROLIFERA francese Total non si è bloccata neppure dopo che, a inizio di aprile, si è registrata la conferma di un caso di coronavirus tra il suo staff. Com’era prevedibile, il contagio si è diffuso, tanto da trasformare i suoi impianti in veri e propri focolai, con circa la metà dei casi confermati nel Paese (in totale 65, dato aggiornato a ieri). Solo a quel punto, quando era già troppo tardi, Total ha deciso di ridurre le attività, senza peraltro chiuderle del tutto.

Da quando nel 2010 l’americana Anadarko e l’italiana Eni hanno annunciato la scoperta di enormi giacimenti di gas nel nord del Paese, il Mozambico si è trasformato in una delle principali frontiere estrattive. Attualmente, tre dei maggiori progetti di gas naturale liquefatto al mondo sono in fase di realizzazione nella provincia di Capo Delgado, con un investimento complessivo che arriverebbe a superare i 50 miliardi di dollari. Due di questi, Coral South e Rovuma LNG, vedono Eni tra le dirette interessate.

Progetti come questi richiedono la manodopera di migliaia di lavoratori, i quali vivono assembrati in accampamenti collocati a ridosso di comunità rurali. Il rischio di contagio è altissimo sia per gli uni che per le altre. Con un sistema sanitario inadeguato a far fronte a una emergenza di tali proporzioni e la difficoltà oggettiva di rispettare le norme di distanziamento sociale da parte di famiglie numerose che vivono in pochi metri quadri, la miscela è altamente esplosiva.

MA SE NON È LA TUTELA della salute a rallentare l’industria del gas, lo è certamente la crisi del petrolio. Diverse compagnie, inclusa l’Eni, hanno recentemente rivisto al ribasso le stime degli investimenti futuri, tagliandole del 20-30%, a seconda dei casi. Uno dei progetti più ambiziosi, l’impianto di liquefazione Rovuma LNG, controllato da una joint-venture tra Exxon, Eni e la compagnia di stato cinese, sembrebbe tra quelli più a rischio.

Fonti interne di Exxon riportano che la compagnia americana voglia rimandare la decisione finale sull’investimento, prevista inizialmente nei prossimi mesi. L’impatto sarebbe rovinoso per l’intera industria del gas mozambicana.

Chi finora ha pagato il prezzo più alto sono però le comunità della provincia di Capo Delgado. Quelle scoperte che avrebbero dovuto portare benessere e ricchezza, si sono trasformate, come spesso accade, in una maledizione.

MOLTE FAMIGLIE sono già state costrette ad abbandonare la propria terra per far spazio alle operazioni e tante altre dovranno farlo, per un totale di circa 1.500 famiglie, in base alle stime delle stesse compagnie. Saranno poi oltre 3mila i pescatori che perderanno accesso alle loro zone di pesca, ormai diventate l’habitat di enormi impianti galleggianti da decine di tonnellate.

I piani di ricollocamento e le compensazioni promesse sembrano aver scontentato tutti. A diverse famiglie sono stati assegnati pezzi di terra già occupati da altre comunità, causando dei conflitti.

Pochi però ne vogliono parlare, per paura che gli venga tolto anche quel poco che sono riusciti ad ottenere. Negli scorsi anni, diversi giornalisti locali che si sono occupati della questione sono stati arrestati.

Poi c’è l’aumento esponenziale dei conflitti armati. Dal 2017, gli attacchi da parte dei gruppi islamisti hanno causato la morte di 700 persone e più di 100 mila rifugiati interni. Ciò ha innescato una reazione a catena che ha portato a una totale militarizzazione dell’area, su esplicita richiesta dalle compagnie petrolifere che vi operano.

A fianco dell’esercito locale sono schierati circa 200 mercenari russi della compagnia Wagner, alla quale è andato un appalto per la fornitura di servizi di sicurezza nella regione.

LA SICUREZZA DI CHI? Certamente non quella delle comunità, che si ritrovano ora impossibilitate a lavorare nei campi poiché ogni spostamento rischia di essere fatale. Di fatto, queste famiglie sono schiacciate dalle trivelle da un lato e dalle milizie dall’altro. Il rischio è quello di centinaia di persone costrette alla fame.

L’ultima mattanza risale a qualche giorno fa, quando i miliziani di al-Shabab hanno massacrato circa 50 persone nel villaggio di Xitaxi, poco distante dai giacimenti. Sorprendentemente, gli impianti sembrano essere immuni da questa violenza.

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