Non ci sono molti segni rossi sui provini a contatto. La scelta è sempre rigorosa, come lo è la sequenza delle immagini impresse prima sul negativo e poi sulla carta fotografica, ma più in generale nello sguardo stesso di Caio Mario Garrubba (Napoli 1923-Spoleto 2015). A questo grande viaggiatore e fotoreporter che pubblicava su testate come Stern, Paris Match, Il mondo è dedicata la mostra «FREElance sulla strada» organizzata dall’Archivio storico Luce/Cinecittà (a cura di Emiliano Guidi e Stefano Mirabella) a Palazzo Merulana nell’ambito del festival Roma Fotografia 2021 – FREEDOM (fino al 28 novembre).

Un percorso espositivo che testimonia l’unicità dell’ingente fondo fotografico di Garrubba, costituito da circa 10mila immagini di cui 60.000 negativi, 40.000 diapositive e molte stampe vintage, che l’Archivio Storico dell’Istituto Luce ha acquistato nel 2017 dalla moglie Alla Folomietov, provvedendo alla digitalizzazione, catalogazione e valorizzazione.

«FREElance sulla strada» è in parte anche un omaggio a lei, compagna di vita che Caio Mario Garrubba conobbe a Varsavia nel 1961. Nella lunga intervista (cinque ore di girato) realizzata nella loro casa di Spoleto Alla Folomietov parla proprio dell’amore del marito per la strada, teatro della vita. Di questo acuto e coltissimo osservatore – instancabile lettore di Hemingway – che dalle lunghe passeggiate «ovunque e comunque» traeva i documenti più preziosi, dice che non era attratto dalla tecnica né dalle scoperte, ma dalla condizione umana. «Amava l’uomo e voleva che l’uomo andasse verso una soluzione. Sapeva che non esiste, però si illudeva leggermente». Non è un caso che Goffredo Parise lo avesse definito il «fotografo del comunismo della speranza, non quello reale».

Nelle foto di Garrubba non c’è alcuna messa in posa: l’incontro e l’attesa dell’incontro conferiscono alle immagini un carattere di apparente sospensione, vibrante di non detto, del momento che verrà. «Voleva rappresentare l’umanità nello scorrere della vita quotidiana», sottolinea il curatore Emiliano Guidi che si è occupato anche del lavoro d’archivio. «La strada è il luogo che gli permette di esprimere al massimo la sua libertà di fotografo freelance. Nel titolo abbiamo evidenziato la parola free proprio perché Garrubba era un fotografo libero, alla ricerca di un quotidiano senza sensazionalismi. Una libertà intesa anche come riscatto dell’umanità».

Libertà e umanità, quindi, sono il leitmotiv dell’intera esposizione che, diversamente dalla retrospettiva «Lontano. Caio Mario Garrubba Fotografie», organizzata nel 2019 alla Galleria Nazionale d’Arte di Roma, propone una selezione di 116 fotografie in bianco e nero che include numerosi inediti. Persone comuni colte di spalle o intente a fotografare: c’è chi conversa, cammina, dorme, gioca, sorride, si volta a guardare.

Tanti bambini, giovani e adulti, donne e uomini che restituiscono con i loro sguardi la consapevolezza dell’hic et nunc: a Venezia nel ’55, a Scanno nel ’56, a Mosca nel ’57, a Londra nel ’57, a Praga nel ’57, Varsavia nel ’57, a Rio de Janeiro nel ’58, a Xian nel ’59, a New York nel ‘60, a Roma nel ’75, a Napoli nel 1980, a Crotone nel 1984… È significativo ricordare che Caio Mario Garrubba è stato il secondo fotoreporter occidentale ad entrare, nel 1959, nella Cina di Mao: il primo fu Henri Cartier-Bresson che apprezzava la fotografia di Garrubba tanto da averlo invitato (senza successo) ad unirsi all’agenzia Magnum. L’intero reportage è in corso di pubblicazione nell’archivio online www.archivioluce.com.

È altrettanto certo che per Caio Mario Garrubba la lezione di Cartier-Bresson sia stata decisiva quanto quella di W. Eugene Smith, anche se l’incontro che gli aprì la strada della fotografia fu con Plinio De Martiis. Era il 1953. Proprio alla galleria La Tartaruga qualche anno più tardi, nel ’61, fu venduta a Luisa Spagnoli la fotografia Casablanca (1954) scattata tra i muri bianchi del quartiere «chiuso».

Da una certa distanza, con la Rollei, il fotografo coglie l’intimità tra una ragazza e il soldato in uniforme «sembrava che i due si conoscessero già. Forse lei cercava di convincerlo. Affari loro. Comunque mi è andata bene, perché il soldato si accorse che avevo fatto le foto e mi si avvicinò di corsa, ma negai l’evidenza. Insomma feci una cosa alla napoletana! La foto è bellissima, lo sapevo anche mentre la scattavo». Lo disse nell’intervista che raccolsi nel 2005, in occasione della sua prima antologica italiana «Fotografie 1953-1990» curata da Diego Mormorio a Cinecittàdue Arte Contemporanea.

Raccontò anche della foto che non aveva mai fatto: «ricordo un fatto che successe mentre mi trovavo a Barcellona nel ‘47. Dovevo andare in treno a Madrid, perciò ero alla stazione. Veramente erano tre giorni che andavo alla biglietteria della stazione per prenotare il posto, ma ogni volta tornavo indietro perché era sempre tutto pieno. L’ultima volta c’era un signore in fila, era vestito molto modestamente e aveva la faccia grigia. Insieme a lui c’era una ragazza molto bellina che avrà avuto dodici/tredici anni e un bambino piccolo. Non facevano che discutere. Ad un certo punto l’uomo se ne andò via e la ragazza lo seguì. Era dietro di lui e gli sputava sulla nuca. Ecco, un’immagine del genere come si può fotografare? Era un fatto strano. Mi sono sempre chiesto che si saranno mai detti. Lui, rigido, sapeva che la ragazza gli stava sputando, ma camminava come impalato. Forse c’era stata qualche fetenzia fra loro. Vedo benissimo tutta la scena davanti a quel botteghino che era di una miseria e uno squallore incredibile. Un’immagine del genere si può solamente raccontare per scritto».