Nella seconda parte del Don Chisciotte (II, 58) due graziose giovani vestite da pastorelle offrono ai nostri eroi la messa in scena di un’egloga – si tratta della seconda, la più teatrale – di Garcilaso de la Vega. Questa rievocazione dell’Arcadia è un chiaro omaggio al suo più grande cultore e poeta, che Cervantes chiama «el famoso poeta Garcilaso». Garcilaso (1501-’36) è un emblema vivente per la sua epoca: è il perfetto cortigiano celebrato da Castiglione, si muove in un teatro ideale in cui i colpi di spada sono gesti da galateo aristocratico e l’avventura individuale si concreta in piccole ambascerie politiche e in viaggi da un capo all’altro dell’Europa per missioni di fiducia di principi e monarchi. Ma è anche, e soprattutto, un poeta, con piena e orgogliosa consapevolezza dei valori letterari e formali della sua opera. Con lui da una poesia come gioco di stilizzazioni cortesi, di elaborate allegorie, si passa a una poesia dominata dall’impegno personale e dalla memoria, che implica un nuovo pubblico, capace di apprezzare l’unità di un’opera dove il sentimento individuale si identifica con la nobiltà e con la perfezione della forma. Accanto a poche liriche tradizionali, come le coplas in ottosillabi, sono gli endecasillabi – il grande modello è Petrarca – che danno il loro ritmo a una vasta e variegata gamma di testi: tre egloghe, due elegie, un’ epistola, cinque canzoni, una quarantina di sonetti.
Tutta l’opera di Garcilaso, indubbiamente uno dei più grandi poeti del Cinquecento europeo, è disponibile in italiano, con testo a fronte, in un’eccellente traduzione – che non conserva le rime ma riprende felicemente la norma metrica, che rifiuta la suggestione di pur legittimi calchi petrarcheschi – per opera dell’ispanista Mario Di Pinto (Poesie complete Volume I. Le liriche, Liguori, pp. 254, euro 20,90), che già aveva tradotto le Egloghe, nel 1992, per la «Collezione di poesia» di Einaudi. Il volume che esce ora da Liguori ci offre nell’Introduzione una sottile analisi tematica e stilistica di tutta l’opera di Garcilaso, e la dizione Poesie Complete. Volume I ci fa pensare che in futuro verranno riproposte anche le Egloghe. L’altissima consapevolezza dei valori letterari e formali che innerva il canzoniere si misura nel rapporto, mobile e inquieto, con le «fonti». Sono importanti il valenziano Ausiàs March, per il rigore logico del discorso, per il tormentato e intenso patetismo, Sannazaro, che con l’Arcadia gli rivela il sogno pastorale, e soprattutto Petrarca. Per il tema dell’amore impossibile, l’amore che continuamente si nega per riemergere sempre come desiderio, per i sinuosi e polivalenti ritmi dell’endecasillabo, per l’inesausta e sognante esplorazione dei moti interiori, per il nesso simbolico e fantasmatico tra anima e paesaggio, per la dolcezza e l’armonia.
Nei sonetti Garcilaso percorre l’impervia via dell’amore negato, l’errato progresso dei suoi anni, l’infermo e folle pensiero, piange, ma solo per confermarlo, il desiderio «folle, vano, impossibile, pauroso» («loco, imposible, vano, temeroso»), il morire «entre memorias tristes»: «e se voglio salire all’alta cima, / a ogni passo mi assaltano per via / tristi esempi di quanti son caduti; / soprattutto mi manca ormai la luce / della speranza che mi accompagnava / nell’oscura region del vostro oblio» («Y si quiero subir a la lata cumbre, / a cada paso espántanme en la vía / ejemplos tristres de los que han caído; / sobre todo, me falta ya la lumbre / de la esperanza, con que andar solía / por la escura región de vuestro olvido»).
Nella sua Introduzione Di Pinto fa largo spazio alle Egloghe, la più audace e riuscita sperimentazione poetica di Garcilaso. La scena è insieme mitica e reale. Il travestimento arcadico serve a un recupero di verità e di emozione. Il poeta si nasconde dietro i volti e le parole di ogni pastore: la sofferenza per l’inattingibile e sdegnosa ninfa (Salicio), il sentimento della perdita irreparabile, per la morte dell’amata (Nemoroso), il gioco innocente dell’amore adolescenziale, poi la smania del possesso e la follia per l’abbandono (Albanio), e dietro i miti classici: Apollo e Dafne, Venere e Adone, Orfeo ed Euridice. È come se si spostasse da un angolo all’altro del suo teatro, offrendoci nelle tre egloghe, per la ricorrenza dei nomi e degli elementi naturali (il fiume Tago, la città di Toledo), per il raffinato gioco di echi, un unico appassionato e mirabile disegno.
Sulla originalissima elaborazione delle fonti – Petrarca, Sannazaro, Virgilio… –, sulla sua «traiettoria poetica», sul suo stile, la critica ha scritto pagine intense, da Rafael Lapesa a Dámaso Alonso, da Francisco Rico a Carmelo Samonà, da Cesare Segre (per l’ «analisi concettuale» della prima egloga) ad Antonio Gargano, a Mario Di Pinto. Un tratto ricorrente, fondamentale, è una sorta di culto dell’armonia dell’universo, della sua serena bellezza. Un tratto che potrebbe apparire a prima vista, per il continuo ricorso agli epiteti più tradizionali, addirittura convenzionale e artificioso: il vento è fresco e mite, il prato è verde, l’acqua è chiara e pura, la valle è fiorita, fitta e ombrosa. Ma il quadro arcadico è improvvisamente attraversato da forze ostili, da ombre, da tenebre, da oscuri timori. La natura è imperfetta e crudele, per l’incerto mutare dei sentimenti, per il minaccioso incombere della notte e della morte: «Come al partir del sole l’ombra cresce / e, al cader del suo raggio, si solleva / la nera oscurità che il mondo avvolge, / donde nasce il timor che ci atterrisce / e la paurosa forma in cui si finge / quell’altra che la notte ci nasconde». Nella seconda elegia, al ritorno dalla campagna di Tunisi, Garcilaso, con clamorosa amarezza, si descrive come girovago in armi, dove l’immagine del cortigiano perfetto si sfalda in una fatale, insensata peregrinazione: «Io, come un mercenario contrattato, vado dove fortuna mio malgrado / m’invia, forse a morte…» («Yo, como conducido mercenario, / voy do fortuna a mi pesar m’envía, / sino a morir …»).
La bella finzione arcadica, la «soledad amena», il mondo dell’armonia, strenuamente sognati, sono solo un paradiso perduto, l’altra polarità di una realtà più incerta e drammatica. Quella che vede le dee piangere desolatamente la morte della ninfa Elisa, esanime sulla riva del fiume: «Accanto all’acqua, in un luogo fiorito, / era stesa fra l’erba senza vita, / come fa il bianco cigno quando perde / la dolce vita in mezzo all’erba verde». Proprio perché fragile ed effimera, l’armonia è ricercata da Garcilaso, richiamando il mitico Orfeo, con la forma poetica, con un «lingua nuova», dove, come scrive Di Pinto, «le parole si posano nelle caselle giuste con una vibrazione magica, un miracoloso equilibrio di suoni e di significati». È anche attraverso il ritorno continuo degli aggettivi più tradizionali, che assumono così come una forza archetipica, attraverso il loro gioco di simmetrie e di variazioni, che si dispiega la favolosa e mirabile levità della poesia di Garcilaso: «Per te il silenzio della selva ombrosa, / per te i luoghi più schivi ed appartati / del solitario monte mi eran grati / e per te l’erba verde, il fresco vento, / il bianco giglio e la vermiglia rosa / ricercavo e la dolce primavera» («Por ti el silencio de la selva umbrosa, / por ti la esquividad y apartamiento / del solitario monte me agradaba; / por ti la verde hierba, el fresco viento, / el blanco lirio y colorada rosa / y dulce primavera deseaba»).