Fra i saggisti letterari del secondo Novecento, Cesare Garboli è un caso raro non solo per la particolarità del suo esercizio critico, ma per come questo esercizio si è intrecciato con una personalità dai tratti spiccati fino all’eccesso: ostentando un gioco a nascondersi e anche praticando la scienza filologica, Garboli ha ininterrottamente indagato su di sé, mostrandosi nei suoi libri come su un palcoscenico. Un critico attore, si è detto di lui, con tutto lo spettro dell’arte teatrale – dall’istrione al suggeritore dalla buca – senza mai lasciar capire dove finisse la persuasione e dove iniziasse l’esibizione: lì era il territorio del suo dominio attrattivo, il suo luogo incantatorio. Così, seguire le piste della sua attività porta immancabilmente a un groviglio, come in quei disegni dove Giacometti, girando e rigirando con la matita sul foglio, cerca una testa, un punto di ordine e di certa visibilità che sembra non arrivare mai e che, probabilmente, non si vuol trovare.
Chi meglio di un ispettore professionista per portarci su sentieri continuamente interrotti e ripresi per sciogliere il groviglio, l’ingravallesco «gliuommero»? E allora è una notizia da non sottovalutare quella che si trova in Cesare (Einaudi, pp. 132, € 17,00), il bel ritratto a memoria – ma su salde basi documentarie – che gli ha dedicato con affetto fantasia e rigore Rosetta Loy (inclusivo della cronaca di un amore, inaugurato da Cesare che le tira su il bavero del giaccone per difenderla dal freddo). La notizia è iper-metaforica: nelle sue varie case, Garboli si trasferisce con un televisore al seguito: «per quegli anni – osserva Rosetta Loy – certamente all’avanguardia, ma adesso sopravvissuto, dove Cesare ogni pomeriggio alle sei deve vedere L’ispettore Derrick di cui non può perdere una puntata, divertendosi come un bambino nonostante una visione non di rado a striscioline ondulanti». Ci sono vari particolari, qui, dai quali pronosticare l’identità di Garboli. La prima è che ci sia una pista da seguire, dove guardare qualcosa che gli altri non hanno visto o voluto vedere; la seconda è la variazione nell’abitudine: in quel variare solo riposa un senso; la terza è il divertimento infantile della scoperta, ovvero la forma più alta di divertimento; la quarta è costituita dalle «striscioline ondulanti» che sono la forma in cui si manifesta la realtà delle cose e dei fatti, proprio là dove in genere si crede di vedere chiaro e dove invece c’è altro da vedere, instabile, provvisorio e non immediatamente diagnosticabile.
Nella visione di Derrick c’è infine un altro tratto della personalità di Garboli: evitare generalizzazioni, preferendo stare al piccolo dettaglio e da lì partire per mettere in movimento l’indagine. Che viene consegnata soprattutto a scritti di dimensioni piuttosto contenute: quante ne esige il referto. In più, tutto deve essere, fin dove possibile, riconducibile a una qualche forma di concretezza: come dire che le questioni dell’anima devono prima di tutto incarnarsi in un corpo: come si può agevolmente ricostruire leggendo Cesare che, oltre al resto, è anche un «Garboli libro per libro»: una specie di antologia personale dell’autrice con considerazioni, ricordi, aneddoti che sono ogni volta attratti dalla pagina scelta e posta in testa a ogni capitolo.
Cesare può dunque anche essere letto come introduzione a vita e opere di Garboli: sul quale in queste stesse pagine di «Alias» si provò a fare il punto – rapido e provvisorio – in varie occasioni, per esempio per il Tartuffe e all’uscita del volume degli scritti giovanili, La gioia della partita. Ora si vuole ricordare come la ricezione di Garboli sia stata a lungo questione di suoi coetanei e di una ristretta cerchia, come è di solito, ma nel suo caso in modo particolarmente accentuato per la lunga invisibilità della sua opera. Solo più tardi, tra metà e fine degli anni ottanta, la fama si è incrementata grazie all’apparire dei suoi libri e alla conseguente visibilità della sua figura presso generazioni successive. Libri che erano, come nella migliore tradizione critica, raccolte di articoli e saggi o, come Garboli avrebbe detto, «libri involontari» (tali vanno considerati anche il Molière e il Pascoli).
Soleva ripetere che «del passato, non sappiamo niente»: e ciò era diventato il suo rovello, il progetto di un’opera e la guida per quanto andava scrivendo. Finché non fu assalito dal presente. Nei Ricordi tristi e civili annotava: «mi sono accorto di soffrire di un’afflizione rimossa e sgradevole (…): l’incapacità, o l’impossibilità, di sentirmi un cittadino del mio paese»: considerazione nata nei giorni del caso Moro, confrontandosi con «lo spettacolo della festosa vita italiana» che ne seguì: un tratto antropologico da meditare, estendendolo ai giorni della sua vita intera, come chiave pessimistica ma non rassegnata.
Un critico-scrittore, secondo una definizione che pur aborriva, perché uno scrittore crea mondi, diceva, un critico no. Non voleva esporre le viscere, come fanno gli scrittori, ma la visceralità è forse il nucleo profondo di tutta la sua opera: rifiutare la visceralità e praticarla, da aruspice. Anche un critico crea mondi, quando pone alta l’asticella del suo leggere e del suo scrivere: un suo saggio su Longhi si è intitolato, in varie stampe, Longhi scrittore/Longhi lettore: si tratta di un’oscillazione che definisce Garboli stesso, sospeso tra scrivere e leggere, diverse e complementari categorie conoscitive, meno frequenti di quanto non si creda da trovare in coppia. Perciò arrivava ad affermare che mai si sarebbe sognato di far toccare biografia e opera nel trattare gli scrittori posti a oggetto di saggi e ricerche. Un paradosso, visto che aveva fatto toccare vita e opera con continuità; ma si trattava di evitare il fraintendimento: non è tanto la vita a dar forma all’opera quanto, forse più, l’opera alla vita.
Si è detto del corpo: una parola è ricorrente negli scritti di Garboli: «infetto», o «infezione», come se, in letteratura, ogni cosa nascesse da una patologia, della cui entità solo il testo sa parlarci: non il suo autore, col quale quella patologia può anche non aver nulla a che fare. Alcune di queste e altre questioni sono ora affrontate in Vita contro letteratura Cesare Garboli un’idea della critica, lo studio di Paolo Gervasi (Sossella, pp. 234, € 9,00) che, consapevole di quanto Garboli rifuggisse dalle astrazioni, pensa bene, nella conclusione, di ridiscutere il titolo apposto al volume (la cui ampia bibliografia, sia detto per inciso, trascura proprio i nomi dei critici che, in maniera diversa, hanno letto Garboli dagli anni ottanta in poi, da Onofri a Trevi a Perrella e ad altri). Alla maniera di Garboli, spesso Gervasi inizia i suoi capitoli con affermazioni sulle quali poi ritorna conflittualmente: in ciò si intravede una «lezione» del maestro involontario. Resta che la parola «vita», quando portata a livello conoscitivo – al di là della sua consistenza biologica o esistenziale – è talmente sfuggente da non lasciare subito vedere che cosa si ponga contro «letteratura», altra parola ad alto tasso di difficoltà definitoria, soprattutto in Garboli, poco interessato a questioni di forma, di stile e perfino di lingua. La vita era quasi un modo per cancellare la vita stessa: la letteratura per Garboli coincideva con gli autori, visti come personaggi in azione. Se c’è stato qualcuno che non ha celebrato la morte dell’autore è stato, programmaticamente, l’autore degli Scritti servili.