Un bel pavimento a scacchi bianchi e rossi nell’androne; le tante porte che si affacciano sono scandite da stipiti in pietra grigi; al centro un’imprevista colonna in pietra rossa, con tanto di capitello, a sorreggere l’architrave. Strano mix di bella casa contadina, con innesto di elementi che sembrano piovuti da un altro mondo. Una casa-specchio per Tullio Garbari che qui era nato nel 1892: lascia affiorare un mondo intimamente ordinato, ma anche evidenzia, in termini molto gentili, la presenza di una anomalia. Siamo a Pergine Valsugana. A quei tempi era territorio asburgico, ma per Garbari indiscutibilmente marchiato dalle radici retiche: un’impronta, un’identità tanto dolce quanto, al suo sentire, irriducibile. I Reti, che, come da residui di memorie scolastiche, sappiamo aver dato notevole filo da torcere ai romani, derivavano il loro nome dal re Reto, comandante delle popolazioni etrusche in terra padana. E questo innesto etrusco aiuta a spiegare gli strani e affascinanti scartamenti del pittore Garbari.
«Chi lo ha conosciuto conserverà per sempre questa memoria del primo incontro», scrisse di lui Edoardo Persico, che fu suo amico e intellettualmente suo sodale. «Una testa timida ed arrogante, buona e sospettosa. Questa bontà che si presentava come ostile era forse il tratto più caratterizzante di Garbari, ed una forma della sua coraggiosa timidezza». Ritratto preciso, memorabile, costruito per ossimori, che fa il paio con una geniale sintesi anche del Garbari artista.
Garbari pittore lo diventò molto precocemente. Figlio di una famiglia con qualche disponibilità (i genitori gestivano una trattoria a Pergine), a 16 anni venne mandato a Venezia a studiare all’Accademia. Due anni dopo partecipava già alla mostra annuale di Ca’ Pesaro, essendo stato scelto per una delle tre personali. Le altre due erano quelle di Umberto Boccioni e di un trentino come lui, Ermanno Wolf Ferrari. Gli venne anche commissionato il manifesto («in rosso su carta bianca, di grandi dimensioni, vistosissimo», lo descriveva la Gazzetta di Venezia). Sono esordi segnati da un naturalismo contagiato da acidità di derivazione viennese. Ma bisogna onestamente ammettere che non sono inizi degni di particolari sottolineature né sembrano preludere a particolari e sorprendenti sviluppi. Carlo Carrà, che lo aveva conosciuto allora a Venezia, lo ammira per una pittura «libera da ogni vecchiume» ma poi ammette «che il punto di partenza della sua prima pittura, in un secondo tempo non fu più che il pretesto, fino ad essere del tutto obliata negli ultimi lavori». Carrà individua nel bisogno di conferire alle forme «un’animazione che tende condurle al primordiale», la cifra che segna Garbari e che aveva caratterizzato i lavori di una mostra in cui esposero insieme alla Galleria Chini di Milano nel 1917.
L’influsso del Doganiere
Dal punto vista visivo è l’influsso di Rousseau il Doganiere che si fa sentire, con quel suo primitivismo così sfrontatamente moderno. Ma la realtà è che la testa del pittore Garbari era ingombra d’altro, che macinava pensieri, cercava prospettive più salde «per penetrare lo spirito e le aspirazioni del tempo». Così, causa anche la guerra, si prese un lungo periodo sabbatico che si sarebbe concluso solo nel 1924. Non aveva potuto partire per il fronte per via di una malattia contratta durante il periodo di arruolamento. Si era trasferito a Milano per stare comunque in terra italiana. Al suo ritorno a Pergine, alla fine del conflitto, trovò la casa con tutte le sue carte trafugate e disperse. «Si era messo allo studio del greco e del latino riuscendovi a tal punto da tradurre Vitruvio e Platone con una limpidezza classica e virginale», racconta Carlo Belli, l’amico di Rovereto, critico d’arte, più giovane di lui, che gli avrebbe dedicato, dopo la sua morte, un libretto, commosso e coinvolgente (L’angelo in borghese. Saggio sopra un ignoto contemporaneo, 1935). Coloro che lo andavano a trovare lassù restavano suggestionati: venivano accolti indifferentemente con improperi o con moti si spirito. Ma soprattutto scoprivano un uomo alle prese con identico impegno sulle riviste dadaiste come sulla Summa di Tommaso. Un uomo che si era buttato «alle lettere e alla filosofia con una ostinazione e con un’audacia alfieriana» (Carlo Belli). Dobbiamo immaginarcelo questo «religioso, domenicano, intransigente» che quando salivano gli amici «li maltrattava con discorsi ortodossi, interminabili, carichi di un disprezzo che finiva con l’entusiasmare le sue vittime» (è sempre Carlo Belli a raccontare). Scrive anche poesie, «di inciampo michelangiolesco» (Alfonso Gatto), che documentano il senso di questo suo momento di transizione: «Così il poeta reso ostile a tutti / si rincammina per le proprie terre / ove egli trovi, ove ritrovi il seme / rigermogliare / e dove venga alfine rispuntare / le buone piante sotto stele inclini».
Cercava dunque la «buona pianta», Garbari. Il bello riunito al bene. Il passato riunito al presente. Era un gran ragionatore e nella solitudine di Pergine i suoi migliori interlocutori erano i medici del grande manicomio provinciale. Varcava spesso quei cancelli, vi portava gli amici migliori come appunto Carlo Belli. Era un confine oltre il quale Garbari si sentiva libero di essere più audace: «Là dentro egli non mi dava tregua: le nostre discussioni si caricavano di una intensità minacciosa», racconta Belli. «“Partiva” spesso, la sua carica era intensa e misurata, formidabile e composta». L’altro luogo verso il quale Garbari sentiva un’attrazione era il santuario del Piné, dove si venerava l’apparizione della Madonna nel 1729 alla pastorella Domenica Targa. Amava gli ex voto e sentiva che nella loro natura gli suggerivano qualcosa rispetto all’arte, «del fine a cui tende e del mezzo di cui si vale». Non risposte, ma percorsi, capaci di superare quegli «acerbi approcci tra “vero” e “bello”» che forse intravvedeva anche nella sua passata esperienza artistica.
Dio «superpulcher»
Nel 1927 Garbari torna a pieno titolo pittore come se avesse individuato quello che Persico definì «il fascino della sua missione». Centrava in tutto questo la convinta adesione al cattolicesimo, e al Dio «superpulcher»; questo spiega anche la frequenza di soggetti religiosi nella sua seconda stagione artistica. È una pittura che lui stesso definiva di una «tetrica serenità». Pittura convintamente anacronistica, sia nell’iconografia come pure nello stile: «La vivacità e la ghiacciata trasparenza dei suoi colori scaturì da un studio meticoloso sull’atmosfera trentina, e così la fauna umana del luogo è tradotta fedelmente nei suoi quadri», scriveva Carlo Belli. «Un’umanità colonnare», la definì Persico: riferimento che rimanda a quella colonna di pietra rossa al centro dell’androne della casa di Pergine…
Garbari si costruisce una propria personalissima antropologia, spiccatamente fuori dal tempo, con l’idea di proporre però qualcosa che lui, con convinzione, riteneva veramente moderno: è un mondo-recinto, emblematicamente narrato nella Corte delle colombe, un quadro del 1927, incantato e lindo, con quell’umanità affettuosa, troneggiante e un po’ bamboccesca. Raccolse molta ammirazione tra chi lo conosceva, anche per quel senso di autorevolezza che suscitava. «Lei maestro nuova arte italiana», gli scriveva con una certa solennità in un telegramma nel 1930 Edoardo Persico, che avvalendosi dei suoi consigli aveva montato il programma espositivo della galleria del Milione a Milano. Garbari dal 1927 si era spostato di nuovo a Milano proprio sull’onda di questo grande consenso che convergeva su di lui: Mario Sironi gli riconosceva il merito di una pittura «che contiene pensiero».
A proposito di pensiero, la lettura di Arte e Scolastica di Jacques Maritain per Garbari fu una rivelazione. A farglielo scoprire era stato Gino Severini che aveva conosciuto il filosofo francese a Parigi nel 1923 e che aveva stabilito con lui un rapporto di profonda amicizia: Maritain lo aveva anche aiutato in un momento di difficoltà economica. In Arte e Scolastica Garbari aveva anche potuto trovare un concetto che sembrava ritagliato su di lui: è il concetto di maladresse, di «goffaggine», perché lo «spirituale», diceva Maritain, può ben essere maldestro. L’impatto è fortissimo, tanto che decide di raggiungere Severini a Parigi per conoscere Maritain. Non gli riuscì perché l’8 ottobre Garbari moriva improvvisamente per una sincope cardiaca. Nei giorni precedenti aveva lavorato a un’opera ambiziosa e programmaticamente maritainiana, il Trionfo di San Tommaso; opera complicata di forte imprinting pedagogico. Gli amici la esposero a fianco del capezzale insieme al Miracolo della Mula, un quadro che poi anche Maritain ebbe modo di ammirare (la vicenda è stata ricostruita da uno studio di Pietro Viotto).
Il Trionfo di san Tommaso
Il Trionfo di san Tommaso, che oggi è conservato al Mart di Rovereto, è un quadro di suprema inattualità sia nell’idea che nella struttura compositiva. Eppure la pittura di Garbari riesce a far breccia anche dentro questa griglia così programmatica, con quel candore inaspettato della materia, con quella luce tersa che aveva catturato nella sua Pergine e poi interiorizzato. Certo è più facile che Garbari ci sorprenda oggi con altre opere come alcune di quelle che si possono vedere in queste settimana a Casa Depero, sempre a Rovereto, in occasione di una mostra curata da Nicoletta Boschiero, in cui viene presentato insieme a un altro artista e architetto trentino, Gigiotti Zanini. Ad esempio in un quadro come le Tre sorelle (le sue, 1924) ritratte sullo sfondo della Piazza del Duomo a Trento, Garbari ci affascina e insieme diverte per quella sua ostinata stranezza, per quella sua goffaggine ricercata e volutamente solennizzata, per quel monumentalismo applicato a forza a un microcosmo. Si capisce che la pittura per lui era il solo tramite per agguantare un sogno: quello di un’umanità rigenerata, caparbiamente retica e insieme contemporanea, candida e insieme solida. Come i tre protagonisti di uno dei suoi ultimi quadri, La famiglia, da poco entrato nella collezione di Giuseppe Iannaccone. Un gioiello che ha tutto il sapore pacificato di un approdo.