Fausta Garavini ripropone per La nave di Teseo due suoi romanzi del passato, a cominciare dal primo in assoluto, Gli occhi dei pavoni (pp. 118, euro 13,00), uscito per Vallecchi nel 1979 e vincitore del premio Mondello opera prima, e poi Uffizio delle tenebre (pp. 174, euro 14,00), già Marsilio 1998: romanzi che certo meritavano di tornare in circolazione, anche alla luce di una recente, intensa attività di romanziera dell’autrice, sviluppatasi specie negli ultimi anni e tale da collocarla tra le più intense e interessanti scrittrici italiane del momento.
Formatasi alla scuola filologica di Gianfranco Contini, la Garavini ha alle spalle un robusto retroterra accademico-scientifico (nel campo della letteratura provenzale e francese antica e moderna) e un’educazione letteraria di scrittrice che ha le sue radici ideali nella narrativa di Anna Banti e nell’esperienza critica e creativa della rivista «Paragone». Questa sua origine complessa di studiosa e di creatrice in proprio traspare in tutte le sue scritture, al punto da non lasciare nulla di immediatamente istintivo nella sua narrativa, come se il sedimento di tanta cultura dovesse sempre tornare a galla e dominare la sua pagina.
Ad esempio, ne Gli occhi dei pavoni càpita a volte che l’autrice si rivolga direttamente alle sue muse ispiratrici, che sono – guarda caso! – i suoi numi tutelari laici: Marcel (Proust) e Michel (de Montaigne). Ma quello che più stupisce è la forte valenza simbolica che assume il racconto, per cui tutta la vicenda del romanzo sembra filtrata attraverso una lunga sequenza di fatti, immagini, richiami a miti e leggende letterarie che scandiscono una storia di contiguità e insieme di distanziazione intellettuale e amorosa che avvolge e travolge i due personaggi principali: la protagonista e il suo partner, l’archeologo Pierre (guida e anche pigmalione della più giovane compagna). L’ambientazione principale riguarda la Provenza (in particolare il borgo di Aigues Vives) e i territori contermini dell’antica Occitania, dove i personaggi si muovono e agiscono, ma con puntate anche d’istruzione a Barcellona, in Sicilia, nella Germania ancora ferita dalla guerra (Colonia) e, più fuggevolmente, la Francia del Nord e l’Italia.
La storia ha un sapore autobiografico, con dettagli decisamente personali, come spesso accade nei racconti della Garavini, ma con una tendenza però alla sublimazione astratta della vicenda, cosicché il tratto dominante viene a essere quello di una esperienza esemplare, in cui prevalgono le ragioni intellettuali su quelle erotico-sentimentali che pure soggiacciono.
La trama è semplice e complessa insieme. La relazione tra la protagonista e il suo compagno è un rapporto articolato, in cui il soggetto maschile ha una funzione quasi maieutica di indirizzo, rappresentando un punto superiore di conoscenza e di penetrazione della vita e dell’arte, del mito e della storia: un soggetto che razionalizza e sdipana il senso della loro relazione emblematizzata in un’immagine simbolo, il mosaico dei due pavoni nella sala di re Ruggiero nel palazzo dei Normanni di Palermo. Due uccelli simmetrici e staccati che bevono dalla stessa coppa e diventano la chiave interpretativa dell’unione/distinzione dei due personaggi che alla fine scelgono di perpetuare un loro complice e tutto letterario amor de lohn, che ha le sue emblematiche ascendenze nella poesia provenzale (Jaufré Rudel) e nella tradizione romanzesca (Pierre de Provence e la bella Maguelonne). Il senso della loro relazione è così spiegato: «Bevono insieme l’acqua della vita, è l’illusione del raggiungimento, la festa dell’unione vagheggiata. Ma la coppa li unisce e li divide, è il segno breve d’una comunione che annulla e non riduce la distanza».
E come nella tradizione un amore di tal fatta non può non avere la sua dose di infelicità, anche nella finzione del romanzo Pierre non può che morire (leucemia) per dare compiutezza alla leggenda soggiacente. Ed è egli stesso che preconizza la sua fine, come specchio del suo lavoro di archeologo: «Il lavoro continuo della mia vita è ridare la vita a queste pietre, e intanto costruisco la mia morte giorno per giorno. Ogni pezzo di muro che riscopro è un passo avanti in doppia direzione, disseppellisco Glanum e mi scavo la tomba».
Il romanzo non ha però solo il pregio della vicenda, ma anche una sua peculiare intensità lirica che si manifesta sotterranea in larghe sequenze poematiche (volute o involontarie?), in cui una prosa nobilmente impostata si sdipana spesso in lunghe lasse di pieni endecasillabi. Do un solo esempio: «Lasciamo la Sicilia una mattina / di sole risalendo lentamente / la costa calabrese lungo il mare. / Paestum ci attende nel trapezio verde / delle sue mura, svetta nel silenzio / la grande meraviglia dei tre templi, / ma intanto torno torno all’abitato / risorge la necropoli sepolta». E così via per lungo tratto. Sta anche in questa prosa per certi versi ‘d’arte’ il fascino della scrittura della Garavini.
Uffizio delle tenebre è pure il romanzo di una tensione irrisolta tra i due protagonisti: una madre e un figlio, che racconta in prima persona. L’uffizio delle tenebre è una lugubre liturgia della Passione precedente la Pasqua e, per metafora, la cerimonia luttuosa di un rapporto malato, che non trova soluzione, implicato com’è tra dispotismo materno e inettitudine filiale, tra ansia di liberazione e cedevole adattamento a una situazione insostenibile.
Uomo per certi versi ‘senza qualità’, il figlio soggiace alla madre, sacrificandole per una vita in comune, mal tollerata del resto, ambizioni d’arte, lavoro e persino amori, chiuso com’è in un assedio di ossessioni e di fantasmi che gli fanno perdere il senso di realtà e la possibilità di una vita autonoma e piena. In più egli si muove entro un intreccio di sogni e di apparizioni, in cui sembra sdoppiarsi e alterarsi, inseguendo fantasmi ingenerati dalla sua situazione di indecisione e di contrasto. Vogelmann, misteriosa comparsa quasi mefistofelica nella vita del personaggio, non pare essere altro che l’ossessiva rappresentazione delle sue diverse proiezioni, tra volizione e remissione, tra rivolta e sottomissione.
Così la sua vita si compie, dimidiata e mutila e ogni singola riuscita risulta essere appena l’ombra delle sue aspirazioni, anche se alla fine egli riesce a scrivere il libro della sua vita. E quando la madre morirà non sarà la fine della sua ossessione, avendo egli coltivato le sue antitesi come necessità dell’esistenza: «Non mi sento (…) libero e leggero. Sono sfinito, esangue, deluso. Nessun sentiero può portarmi lontano dal mio luogo natale, dal deserto di sale della mia anima verso oasi che non saprei abitare».
Romanzo intenso e dalle molteplici complicanze semantiche, questo Uffizio delle tenebre mostra una notevole capacità di indagare la psiche umana, anche nei suoi lati più oscuri e celati, sfiorando sempre quella incertezza (e anche doppiezza) degli stati emotivi umani, con un’arte e un acume che a tratti fa pensare a Henry James.