Fin dal suo insediamento, Donald Trump ha voluto trasmettere l’immagine di un presidente decisionista e capace di realizzare il proprio programma senza guardare in faccia nessuno e senza ricorrere ai compromessi della politica tradizionale.

Tuttavia, le sue iniziative sono state quasi immediatamente arginate da una serie di intralci. Il contenimento dell’agenda presidenziale è partito dalle ordinanze e dalle sentenze di giudici federali che hanno imposto il congelamento del bando all’immigrazione da sette nazioni a maggioranza islamica ritenute a rischio terrorismo. La scorsa settimana la controffensiva ha investito la composizione del governo: il consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn, è stato costretto a dimettersi e Andrew Puzder, designato al Dipartimento del Lavoro, ha dovuto rinunciare alla carica prima ancora che il Senato votasse sulla sua nomina. Contestazioni popolari delle politiche di Trump si sono susseguite , sotto lo slogan «non è il mio presidente», in occasione della ricorrenza del compleanno di George Washington. Queste manifestazioni si sono fatte forti non solo della legittimità del dissenso in una nazione che si fa vanto della propria natura democratica, ma anche della consapevolezza che Trump è privo di un vero mandato.

A consegnargli la Casa bianca, infatti, non è stata la maggioranza dei votanti ma un’anomalia del meccanismo di elezione indiretta del presidente. Le mobilitazioni di piazza hanno contribuito a sensibilizzare gli attori istituzionali. Sono stati questi ultimi – la magistratura e il Senato – a dare vita alle azioni più incisive per frenare l’attuazione dei progetti di Trump. Ciò è stato possibile per le garanzie di un sistema costituzionale che prevede un controllo reciproco, se non addirittura una condivisione dei poteri, tra esecutivo, giudiziario e legislativo. I decreti presidenziali, ad esempio, sono soggetti al vaglio dei tribunali, fino alla decisione inappellabile della Corte suprema sulla loro costituzionalità. Così il Senato concorre a definire la politica estera, attraverso la ratifica dei trattati internazionali, ed è investito della conferma delle nomine fatte dalla presidenza.

Molti problemi iniziali di Trump risiedono nella composizione del Senato. Qui esiste una maggioranza di 52 repubblicani contro 48 democratici. Non tutti i repubblicani, però, condividono le politiche del presidente. Alcuni sono neoliberisti favorevoli all’integrazione globale dei mercati, ritengono che la Russia sia un interlocutore inaffidabile e temono di inimicarsi i votanti ispanici, che rappresentano la componente in maggior crescita numerica dell’elettorato statunitense. Le pressioni per indurre Flynn alle dimissioni attestano la presenza di una critica interna al partito repubblicano sull’apertura a Putin, che era stata invece sostenuta con forza dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale. La conferma di Betsy DeVos alla guida del dell’Istruzione è stata possibile solo perché, in modo irrituale, il vicepresidente Tom Pence, che presiede il Senato, ha partecipato al voto, rompendo l’equilibrio sorto dopo che due repubblicani si erano schierati con i democratici contro la nomina.

Il fatto che Puzder non disponesse dei voti necessari per diventare segretario al Lavoro è stata un’ulteriore conferma che la maggioranza repubblicana non è disposta ad avallare acriticamente le decisioni della Casa bianca. Trump è conscio dell’opposizione in seno al suo partito. Malgrado gli strali lanciati contro l’establishment politico e i Latinos, ha sostituito Puzder con Alexander Acosta, che non solo è stato sottosegretario alla Giustizia sotto George W. Bush, ma è anche il primo ispanico inserito nella squadra di Trump. In precedenza, la scelta per il giudice mancante della Corte Suprema era caduta su Neil Gorsuch, il meno conservatore della rosa finale di candidati.

Per disfarsi dei vincoli imposti alle sue politiche, Trump sta cercando di scavalcare le istituzioni, appellandosi direttamente al popolo statunitense. Lo ha fatto nel discorso di insediamento, quando ha promesso di restituire ai cittadini il potere sottratto loro, a suo dire, dai politici di Washington. Lo ha ribadito sabato a Melbourne (Florida) a un comizio in cui ha pure intensificato gli attacchi ai media, che ha accusato di volerlo screditare con notizie false, dopo averli tacciati su Twitter di essere «nemici del popolo americano». Per adesso il sistema di garanzie costituzionali sta reggendo. Ma nella strategia di Trump si annida una pericolosa deriva autoritaria, anche perché la sua concezione di popolo non corrisponde all’intera cittadinanza, bensì alla minoranza di elettori bianchi, protezionisti, nazionalisti, xenofobi e islamofobi che lo hanno portato alla presidenza.