L’edizione 71 del Festival di Locarno sta per finire, oggi verrà svelato il Pardo d’oro 2018 scelto tra i quindici della competizione internazionale, insieme ai molti altri premi assegnati dalle diverse giurie. È questa l’ultima volta per Carlo Chatrian, alla guida della Berlinale dal 2020, in giro si parla molto della prossima direzione, «Chiunque sarà il nuovo direttore o direttrice…» è la frase che rimbalza tra dirette radiofoniche e chiacchiere da bar, ciascuno coi suoi desideri e aspettative – qualche suggerimento: rendere il sito più funzionale; potenziare la videolibrary; garantire i sottotitoli per la retrospettiva; rivedere la Piazza i cui risultati anche in termini di presenze non sono così smaglianti e il suo rapporto con le altre sezioni.

Che edizione è stata questa 71? Di passaggio verrebbe da dire con battuta un po’ scontata, con poca tensione complessiva al di là delle singole proposte, alcune molto buone (M di Zauberman, Menocchio di Fasulo, l’allegro narcisismo delle 14 ore di La Flor per rimanere al concorso internazionale) e titoli fragili specie in sezioni che dovrebbero indicarci il futuro quale Cineasti del presente.
Una scossa l’ha prodotta il nuovo film di Hong Sangsoo, Pardo d’oro nel 2015 (Right Now, Wrong Then) e nelle ultime edizioni presenza costante sul lago ticinese, che con Gangbyun Hotel («L’hotel sul fiume») ci porta di nuovo nei luoghi (poetici) del suo cinema diversi a ogni nuovo film che mai replica il precedente pur mantenendo una cifra autoriale personalissima, e specie negli ultimi con la figura iconica della sua attrice, la meravigliosa Min-hee Kim.

C’è sempre una ragazza sola con una qualche ferita nel cuore nei film di Hong Sangsoo, e c’è un uomo più grande col peso di una rinuncia che poteva dare alla vita un movimento diverso. Ci sono una piccola città, un hotel, un bar, altre figure ciascuna con la sua storia che porta in sé variazioni sulla vita, l’amore, i sentimenti, umorismo e malinconia, dolcezza amara e fraintendimenti, rimpianti e curiosità. L’hotel del film si chiama Heimat, sta di fronte a un fiume, è vuoto forse perché è inverno e fa troppo freddo per una vacanza. Vi si sono rifugiati un maturo poeta stanco della sua casa, e forse della sua vita, che sente arrivare la morte, e una ragazza sola, la sua mano è fasciata, una bruciatura.

È lieve spiega all’amica che è venuta a trovarla, brucia più il cuore, il ricordo dell’amato che ha deciso di rimanere in famiglia consumando la loro storia: «Il cervello gela il cuore» dice lei. Le due giovani donne parlano e dormono molto, fuori nevica, e succede sempre qualcosa quando nevica. Per esempio incontrano il poeta coi suoi omaggi di parole galanti alla loro bellezza, a aspettarlo ci sono anche i due figli dell’uomo, il più giovane è un regista famoso (ambivalente dice l’amica alla ragazza), il maggiore è invece frustrato, la moglie lo ha lasciato e lui non osa dirlo al padre. Il poeta si è allontanato quando erano ragazzini, la ex-moglie ancora lo detesta, eppure per la famiglia ha abbandonato la donna che amava come l’uomo con la ragazza.
E se fossero la stessa storia? Fantasmi imprigionati dalla paura, dai traumi dell’esistenza, dalle autocensure di fronte alle regole sociali, le convenienze, gli attacchi senza riuscire a imporre le vie di fuga del sentimento, soffocando il cuore.

Perduti in quel paesaggio innevato, prigionieri di sé nel bianco e nero di un film doloroso, forse già morti – si vedono solo tra loro. Immagini letterarie, danza di storie che si ripetono nuove e uguali, un’autobiografia (la separazione del regista dalla moglie e il legame con Min-hee erano stati molto criticati in Corea del sud) e un’autofinzione, pensieri di un cinema in movimento che con grazia continua a mettersi alla prova.

Un film di fantasmi è anche Sophia Antipolis di Virgil Vernier, tra i migliori titoli dei Cineasti del presente in cui il regista francese prosegue nella personale cartografia del contemporaneo. Se nel precedente Mercuriales il punto di partenza erano le torri «gemelle» nella periferia parigina, qui siamo nella cittadina del titolo, nata sulla Costa Azzurra, tra Cannes e Nizza, come un polo tecnologico – l’ispirazione era la Silicon Valley – che il regista trasforma in un laboratorio del contemporaneo.
Non-luogo per definizione sospesa nel tempo di una tranquillità solo apparente, sintomo di una catastrofe che sta per accadere, Sophia Antipolis è attraversata dalle ossessioni esasperate dell’occidente: la bellezza di plastica (chirurgica) con le ragazzine che si rifanno le tette solo per partecipare a un casting; gruppi fascisti che compiono crimini in nome della sicurezza, bruciano le tende dei senza tetto, picchiano, uccidono; chiese esoteriche, solitudini in cerca di redenzione.

Il nome, omaggio del suo inventore alla moglie, è anche quello di una ragazza trovata morta in uno degli edifici abbandonati – un crimine rimasto senza colpevoli – di cui ascolteremo la narrazione alla fine, affidata all’amica che aveva smesso di seguirla nelle sue scelte di vita, nuovo segmento di un mondo il cui confine rivela come la brutalità si è trasformata in quotidiano. Vernier rende i luoghi personaggi, la realtà scivola in una fantascienza crepuscolare, il vissuto si inscrive nel suo paesaggio, ne diviene un segno come lo sono le architetture, gli spazi vuoti, la linea di un orizzonte che è quello del presente: la Francia, l’Europa, il nostro mondo.