Quaranta titoli, quaranta volte campioni. Una volta in più degli inglesi. Se è vero che la storia del rugby è innanzitutto, per motivi di genesi, una storia inglese fatta di college, giovani rampolli della classe agiata e ambienti esclusivi, è altrettanto vero che senza i gallesi (e gli scozzesi, e gli irlandesi…) questo sport perderebbe una quota importante del suo fascino. Come è ben noto, il rugby è nato in Inghilterra. Sì, ma quando esattamente? La leggenda ne attribuisce l’invenzione a William Webb Ellis, studente del collegio di Rugby, contea del Warwickshire, nell’anno 1823. Un certo giorno, durante una partita di football, il giovane Webb Ellis (pare fosse di origini irlandesi) avrebbe infranto le regole del gioco afferrando la palla con le mani e correndo in avanti. L’antefatto, vero o falso che fosse (ma guai a metterlo in discussione con quelli di Rugby), frutto di una folle intuizione o di una semplice distrazione, avrebbe cambiato la storia e dato vita a una corrente, l’handling game, contrapposta al dribbling game, sia pure in un contesto di continua ibridazione e di una certa confusione. Le regole erano tutte in divenire, basti dire che si discusse a lungo se fosse o meno accettabile praticare l’hacking, ovvero dare dei calci negli stinchi degli avversari. Gli storici ritengono però che il gioco del rugby sia nato quarant’anni più tardi, nel 1863, quando si decise di dare vita alla Football Association e, dopo una serie di riunioni londinesi nella Taverna dei Framassoni, i sostenitori dell’handling game e quelli del dribbling game decisero di separarsi e le due discipline, il rugby e il calcio, andarono ognuna per la sua strada. Dal “proto-rugby” un po’ anarcoide si sarebbe così passati a un gioco strutturato secondo regole definite che sarebbero state poi adottate nelle altre union britanniche.

NEL GALLES IL GIOCO prese piede da subito nelle “Public School” (parliamo non di scuola pubblica ma di scuole gestite da enti privati seppure aperte a chiunque fosse in grado di pagare la retta) ma piacque molto anche ad operai e minatori e divenne in poco tempo il loro sport preferito. Inoltre, non parve vero ai gallesi di avere l’occasione di sfidare gli inglesi, inventori del gioco, in uno sport tanto fisico e talora brutale, nel quale i “colpi proibiti” erano praticati senza troppi patemi d’animo. Insomma, si regolavano un po’ di conti con una storia di sopraffazioni andata avanti per secoli e che sarebbe stata così riassunta da Phil Bennett, leggendario mediano di apertura, in una celebre arringa ai compagni di squadra nei minuti che precedevano un match tra Galles e Inghilterra: “Guardate quello che quei bastardi hanno fatto al nostro paese. Hanno preso il nostro carbone, il nostro acciaio, la nostra acqua. Comprano le nostre case per passarci due settimane l’anno. E cosa ci hanno dato in cambio? Assolutamente nulla. Siamo stati sfruttati, umiliati, controllati e puniti dagli inglesi. Ed è contro di loro che giocherete questo pomeriggio. Gli inglesi”. Era il 5 marzo 1977. E vinse il Galles. Nell’universo ovale esistono soltanto due nazioni che hanno fatto del rugby un simbolo della propria identità senza distinzioni di classe. Una è la Nuova Zelanda, l’altro è il Galles. Non il Sudafrica, dove per più di un secolo il rugby è stato simbolo e prerogativa della minoranza bianca e razzista. Nelle altre home union la palla ovale divide la popolarità con altri sport, per i gallesi è una religione civile e anche oggi, con buona parte delle miniere di carbone chiuse per sempre, i match della nazionale e la sfida annuale con il XV della Rosa si gonfiano di significati politici e risuonano gli echi di una mai sopita ribellione.

Parigi, o cara

I gallesi si erano presentati una settimana fa allo Stade de France di Parigi a punteggio pieno e a un passo dal Grande Slam. Il match si annunciava difficile ma non impossibile: da un lato c’era una squadra rodata ed esperta, dall’altro estro e giovinezza ma anche discontinuità. La partita era stata folle e alquanto ruvida. Tre cartellini gialli e un rosso era stati sventolati dall’arbitro inglese (ma nativo gallese di Pontypool) Luke Pearce e ben otto decisioni cruciali erano state prese dopo lunghi conciliaboli con il Tmo addetto alla moviola. Il cartellino rosso era toccato al francese Paul Willemse ma a decidere le sorti della sfida erano stati i due gialli comminati nel giro di due minuti ai gallesi Tobe Faletau e Liam Williams quando mancavano dieci minuti alla fine. Con un uomo in più la Francia aveva prodotto un forcing furioso e la meta di Dulin aveva sancito il sorpasso definitivo. Niente grande slam e tutto rinviato a ieri sera, quando Francia e Scozia si sarebbero affrontate per recuperare il match rinviato del terzo turno del torneo. Ancora la Francia e ancora Parigi. Per riconquistare il Sei Nazioni (l’ultima volta nel 2010, undici anni fa) i galletti dovevano vincere, segnare almeno quattro mete per raccogliere il punto di bonus e colmare la differenza di 20 punti che li separava dai gallesi. L’impresa non appariva disperata. La Scozia, dopo aver conquistato la Calcutta Cup nel match di apertura del torneo, aveva perso con Irlanda e Galles, poi aveva strapazzato l’Italia, confermandosi squadra un po’ matta e imprevedibile: una mina vagante più predisposta a perdersi nei meandri del match che a costruire mattone su mattone le sue vittorie.

AI GALLESI NON RESTAVA che accomodarsi di fronte al televisore e sperare che almeno una delle tre condizioni per una vittoria francese in questo Sei Nazioni non si realizzassero. I pronostici, però, sorridevano ai padroni di casa. Allo Stade pioveva, la palla sgusciava via di mano e i rimbalzi erano traditori. Ma soprattutto la squadra scozzese appariva da subito più in palla e con idee ben chiare: grande difesa, terze linee assatanate nei punti di incontro, organizzazione. Grant Gilchrist dominava sulle touches e il capitano Stuart Hogg primeggiava nel gioco al piede bombardando le linee arretrate avversarie. Di contro i francesi apparivano disorientati e assai poco efficaci nel risalire il campo: poco rugby champagne e niente bollicine.

Gli scozzesi segnavano la prima meta (Duhan van der Merwe), consolidavano con i calci di Finn Russell, soffrivano il ritorno e il sorpasso dei coqs (meta Ntamack), restavano temporaneamente in quattordici per un giallo a Hogg poco prima del riposo ma contenevano i danni subendo solo altri 5 punti (meta Penaud). Resistevano, nonostante uno scarto di 8 punti, e allo scadere di un’ora di gioco si ritrovavano di nuovo avanti con una meta di Cherry e una sequenza infinita di attacchi multifase. Cinque minuti dopo era la Francia a riportarsi di nuovo avanti con una meta di Rebbadji, ma Ntamack sbagliava il secondo calcio della serata e il punteggio restava sul 23-20.

La sfida rimaneva aperta e tutto sembrava possibile. A impressionare di più era però la tigna degli scozzesi, la loro lucidità e determinazione. Con dieci minuti ancora da giocare arrivava invece un cartellino rosso (forse troppo severo) per Russell e la Scozia si trovava sotto e con un uomo in meno fino alla fine del match. Eppure resisteva, non mollava un metro di terreno e tre minuti più tardi era il francese Serin a vedersi comminato un giallo che ripristinava la parità numerica. La Francia era avanti ma non aveva né il punto di bonus e nemmeno uno scarto di punteggio tale da rimontare la classifica. L’impresa a portata di mano si era fatta prima complicata e ora era divenuta disperata: tutto congiurava a favore di una catastrophe conclusiva. L’errore fatale lo commetteva Dulin che a tempo scaduto insisteva in un contrattacco e perdeva palla. Agli scozzesi non pareva vero e si avventavano come lupi: quattro minuti di attacchi multifase e meta di Van der Merwe. Trasformazione di Hastings, 27-23. Fischio finale, Galles campione, Inghilterra penultima. Sipario.