«Attenti che faccio intervenire la polizia d’udienza» (definizione con la quale si intende la facoltà di far intervenire le forze dell’ordine concessa al presidente del tribunale a fronte di disordini in aula). Quando il presidente del Senato Grasso si lascia andare all’inaudita minaccia, i capigruppo dell’opposizione, a parte Fi che dell’opposizione fa parte solo di nome, trasecolano. A nessuno era mai passato per la mente di ventilare un intervento della polizia, sia pure «d’udienza», nell’aula di palazzo Madama. Il presidente Gal Ferrara sbotta furibondo, e i suoi strilli risuonano nei corridoi del Senato. Poco dopo i capigruppo di Sel, Lega e M5S abbandonano la conferenza dei capigruppo (non in seguito alla minaccia di Grasso) certificando così l’impasse in cui la riforma di Renzi è finita di nuovo. Il presidente chiarirà poi in poi che alludeva ai commessi d’aula, non ai carabinieri, ed è sicuramente così. Ma il lapsus rende conto del clima in cui continua a procedere, anzi a incespicare, la riforma della Costituzione italiana.
L’incidente destinato a paralizzare per ore il Senato si era prodotto al termine della seduta della mattina. Una scena quasi più ridicola che drammatica, da commediaccia all’italiana, con Grasso che, nell’arco di una ventina di secondi, dichiara aperta e chiusa la votazione più delicata, scioglie la seduta e scompare dall’aula. Nel caos, tra urli e insulti vari, non riesce a votare neppure la capogruppo di Sel Loredana De Petris. Le dichiarazioni di voto vengono cancellate d’autorità. Dell’obbligatorio chiarimento su quali emendamenti affini verranno cassati in caso di bocciatura non se ne parla nemmeno.
L’aula discuteva da circa un’ora sull’ipotesi di spacchettare l’emendamento del leghista Candiani che teneva insieme la diminuzione del numero dei deputati, portandoli a 500, e la garanzia dei diritti delle minoranze linguistiche. Votarlo per parti separate avrebbe permesso di applicare il voto segreto, come d’obbligo fare quando si tratta di minoranze, solo a una parte dell’emendamento e votare invece palesemente la parte nevralgica, quella sul taglio dei deputati. Ma stavolta spacchettare non si può e così, al termine del dibattito, Grasso prende la rincorsa, dichiara che sull’intero emendamento ci si pronuncerà col voto palese, alla faccia delle minoranze linguistiche. Il tempo di un sospiro e l’emendamento è bocciato, la seduta sciolta, la guerra garantita.
Non sarebbe andata così senza il fattaccio prodottosi in precedenza. Era capitato che, a voto segreto, governo e maggioranza erano stati battuti su un emendamento, sempre del leghista Candiani, sulle competenze del nuovo Senato, allargate ora ai temi etici: 154 voti favorevoli, 147 contrari, 2 astenuti. Nel complesso una quarantina di franchi tiratori, equamente divisi tra Pd e Fi.
A caldo la “renzina” Pina Picierno se ne esce con un commento tanto assurdo e fuori luogo da risultare imbarazzante prima di tutto per Renzi: «E’ la ricarica dei 101, come con Prodi». Toccherà al premier correggere e chiarire che, no, tra i due fattacci non esiste paragone possibile. La modifica in sé non è devastante, il segnale invece sì: conferma che il testo di Renzi rischia forte di uscire maciullato dal voto segreto. «Non si tratta di un caposaldo della riforma», minimizza il Pd Marcuccio, voce di Renzi a palazzo Madama, e ha ragione. Ma il successivo voto segreto possibile, quello sul numero dei deputati, invece lo è. Di qui la tensione che da quel momento non smette di impennarsi. Il capogruppo Pd Zanda perde le staffe e quasi minaccia Grasso, intimandogli di disporre il voto palese sul secondo emendamento Candiani, senza concedere a nessuno la parola. Grasso salva le apparenze e consente il dibattito. Poi guasta la sostanza con il voto palese «più veloce della luce».
Le opposizioni non possono accettare un esito simile. Quando l’aula riprende i lavori chiedono che almeno venga ripetuto il voto, sia pur palese, ma stavolta rispettando le regole. Il presidente si rifiuta. Per tre volte prova a procedere con gli emendamenti. Per tre volte le proteste dell’opposizione, lo slogan «Libertà» scandito e ritmato, glielo impediscono. Quindi convoca la conferenza dei capigruppo, quella in cui affermerà che per garantire i lavori potrebbe invocare l’intervento dei commessi. Né lui né i capigruppo di maggioranza prendono in considerazione l’ipotesi di ripetere il voto. E’ a quel punto che le opposizioni abbandonano la riunione e i presidenti dei gruppi di maggioranza, rimasti soli, invocano il pugno di ferro. Grasso incontra da soli i capigruppo d’opposizione, va a un millimetro dal rinunciare a presiedere. Alla ripresa Grasso ammette di aver forse sbagliato, si scusa per l’equivoco poliziesco. Ma come andare avanti nessuno più lo sa.