Gaetano Savatteri, giornalista e scrittore, dirige Trame, il festival della letteratura sulle mafie. Insieme a Francesco Grignetti ha curato il corposo volume: Mafia capitale. L’atto di accusa della Procura di Roma, edito da Melampo. All’indomani della retata dei 44 arresti commentiamo con lui gli ultimi sviluppi dell’inchiesta.

Quali i nessi, e quali le differenze tra i due tronconi?

Questa nuova puntata dell’indagine parla al mondo di sopra, non ci sono o, perlomeno, agiscono sullo sfondo, gli «spezzapollici», i mazzieri di professione. Tuttavia rimane la grevità di linguaggio, la truculenza dell’espressione che connota il sodalizio criminale. Tutti parlano di soldi, tutto gravita intorno alla corruzione. Suggestivamente, gli inquirenti la descrivono come «corruzione al nastro» che si muove lungo tre passaggi. Il primo intervento è sulla Regione per procacciare i finanziamenti e poi, in sequenza, si agisce sul Comune e infine sui municipi. L’energia che muove questo nastro sono i soldi e non importa quanti siano. L’importante è fare affari e corrompere. La frase «se magnamo Roma, se li compramo tutti» indica proprio questa voracità e questo senso d’onnipotenza. A differenza della prima tranche il protagonista qui è Salvatore Buzzi mentre Massimo Carminati è più defilato, e sullo sfondo muove le sue pedine dentro ai palazzi: il Viminale, il Campidoglio e le regioni. Questo secondo filone scandaglia i palazzi, perlustra la terra di mezzo. E quel che emerge è un conflitto dentro e tra i palazzi. Tra Buzzi e Carminati c’è un differente profilo criminale, un diverso spessore. Possiamo definire Carminati, la teoria e Buzzi, la prassi.

Hai scritto che Mafia Capitale è stata «la più invisibile tra le organizzazioni criminali». Perché?
Perché operava nei meandri delle burocrazie romane e speculava sulla loro opacità. I burocrati, perno del sodalizio, sono personaggi sconosciuti al grande pubblico ma fondamentali per fare business, in quanto sono loro a gestire le emergenze, a stanziare fondi, a erogare finanziamenti. Così come si è sempre sostenuto che le mafie tradizionali drogano il libero mercato, al pari può dirsi che la consorteria di Carminati era la mano invisibile che truccava il mondo cooperativo. Senza violenza e senza spargimento di sangue. Carminati agiva da «imprenditore del crimine» consapevole che era inutile alzare polveroni. L’importante era agire nell’ombra, muovere il nastro della corruzione.

La Procura contesta l’associazione mafiosa. Condividi quest’ipotesi accusatoria? E quali sono i punti di convergenza con Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Camorra?
Carminati si rivela essere al centro di una ragnatela di interessi e relazioni, consapevole di funzionare da snodo essenziale tra il mondo di sopra dei colletti bianchi e il mondo di sotto dei criminali da strada. Ma diversamente da una qualunque «cricca» degli appalti pubblici, Mafia Capitale mette a valore una decennale esperienza malavitosa e terroristica. E il metodo mafioso nonché il reato associativo che la Procura ipotizzano derivano proprio dalla forza intimidatoria, da questa capacità di assoggettamento che i corrotti subiscono. Gli interlocutori di Buzzi sanno che dietro di lui c’è Carminati, c’è la «gente pesante» di cui si parla nelle intercettazioni, e si mettono a disposizione. Il sodalizio romano è una mafia più raffinata, una mafia 2.0, non cruenta. Ma come le ’ndrine controllano capillarmente i territori di riferimento, altrettanto Mafia Capitale controlla i palazzi, «le casematte del potere». Così come le mafie tradizionali accumulano capitale sociale, la consorteria di Carminati accumulava capitale istituzionale, agendo nel trasversalismo imperante, questo mondo delle burocrazie oblique, dove non c’è destra né sinistra che tenga. Carminati & co. non trafficano droga, ma costruiscono devastanti relazioni criminali con i potenti. E Mafia capitale non può che nascere qui a Roma, la città della «palude morale», della «grande bruttezza», dove la macchina della corruzione può girare a pieno regime, con un clan insediato nei gangli vitali del potere capitolino.

Parafrasando Naomi Klein, può dirsi che Mafia Capitale ha lucrato per anni sulla shock economy, sull’economia delle emergenza?
Indubbiamente sì. La «mucca da mungere» era appunto quella delle emergenze. La consorteria si è arricchita sull’assistenza ai migranti, ai profughi, ai Rom, ai minori non accompagnati, agli sfrattati. Ma che sia l’emergenza neve o la raccolta differenziata oppure le piste ciclabili, ecco puntuale l’appalto. In cambio si sono garantite mazzette, favori, pacchetti di voti, alleanze. E per chi non si inginocchiava c’erano minacce e intrighi per toglierlo di mezzo. Che la politica nazionale dell’accoglienza fosse gestita da Carminati è un dato che lascia atterriti e che spiega la scarsa qualità dei servizi, i campi fatiscenti. Anzi il circolo era talmente vizioso che erano proprio gli accoliti di Carminati ad augurarsi la ribellione dei migranti dentro i centri. Così facendo la mucca avrebbero potuta mungerla ancora. Insomma, o l’emergenza c’era o facevano in modo di crearla. Il merito di Pignatone e del suo staff è appunto quello di aver voluto “sistematizzare” i vari filoni d’indagine, e ciò segna una svolta nella storia giudiziaria italiana. Perchè fa uscire la Procura della Repubblica di Roma dal porto delle nebbie dove le inchieste si muovevano piano e senza una visione complessiva.