Di alcuni grandi tycoon americani si rilevavano una volta le peculiarità creative (soprattutto la solita critica francese che sempre in anticipo su tutti intuì le differenze produttive e stilistiche tra la Warner e la Columbia, tra la Mgm e la Universal). Oggi che anche in America la produzione medio-alta si è appiattita, standardizzata e omologata senza risparmiare persino molti indipendenti, si guarda con un certo interesse alle produzioni dal basso o al cosiddetto crowdfunding. E un produttore indipendente (meglio “autonomo” secondo la distinzione che fa Gianluca Arcopinto nel suo recente libretto edito da DeriveApprodi) come il napoletano Gaetano Di Vaio si è ritagliato uno spazio interessante nell’ambito del cinema italiano proprio per il suo stile produttivo e tematico, per la “riconoscibilità” dei film che riesce a realizzare siano essi documentari, fiction o cortometraggi.

Ora però è arrivato il momento di spostare l’attenzione su Di Vaio produttore tout court visto che fino ad oggi i media si sono occupati di lui – con la tipica sensibilità cattolica italiana molto trasversale per le storie di “redenzione” – soprattutto per il suo encomiabile e coraggioso percorso dell’ex giovane con problemi di droga e di carcere (ricostruito nella recente autobiografia Non mi avranno mai) che nel 2000 fonda nell’area nord di Napoli l’Associazione Culturale “Figli del Bronx”, impegnata in attività di promozione culturale e sociale volte a comunicare il disagio nelle aree a rischio per poi prolungarne nel 2007 le finalità nel settore dell’audiovisivo cominciando a produrre opere cinematografiche socialmente forti, che in alcuni casi hanno messo a dura prova i già precari equilibri dell’egemone rappresentazione “politicamente corretta” di una realtà molto autoreferenziale come quella partenopea e campana.

E così infischiandosene dei compromessi con le istituzioni, con i colleghi napoletani, con le lobbies e con i clan culturali, Di Vaio è andato per la sua strada producendo tra gli altri Sotto la stessa luna di Carlo Luglio, Napoli, Napoli, Napoli di Abel Ferrara, Il loro Natale e Interdizione perpetua diretti da lui stesso, Là-bas di Guido Lombardi, presentati in vari festival nazionali e internazionali. I due film presenti nel programma del Festival Internazionale del Film di Roma ambedue prodotti da lui, Take Five in concorso e Ritratti abusivi in Prospettive Doc Italia, portano il marchio d’autore di Di Vaio e pur essendo molto diversi tra loro – una fiction di genere il primo, un documentario sociale il secondo – trasudano un cinema fatto di idee, saggezza produttiva, capacità di sganciarsi dalla tentazione del ruffiano e ammiccante prodotto medio italiano.

Take Five, prodotto da Di Vaio con la sua factory Figli del Bronx, da Gianluca Curti per Minerva Pictures e da Dario Formisano per Eskimo con Rai Cinema, è l’opera seconda di Guido Lombardi che ha esordito con il pluripremiato Là-bas. E’ il titolo di un classico del jazz del Dave Brubeck Quartet celebre soprattutto per il suo ritmo caratteristico, per il suo tempo irregolare ma anche un’espressione idiomatica che vuole dire “Prendine cinque”. E cinque sono i protagonisti del film che ruota intorno a una rocambolesca rapina messa a punto da “irregolari” del crimine che nella finzione hanno gli stessi nomi (e in qualche caso le stesse esperienze) dei loro interpreti.

Un ricettatore. Un gangster leggendario e depresso. Un pugile squalificato a vita. Un fotografo di matrimoni, ex rapinatore, reduce da un infarto. E un idraulico con il vizio del gioco, che un giorno si ritrova nel caveau di una banca, per riparare una perdita della rete fognaria. E si fa venire un’idea…Cinque “irregolari” alle prese con una rapina milionaria. Diffidenti, solidali, infine travolti da un reciproco gioco al massacro. Dove contano soltanto il denaro e la lotta per la sopravvivenza.

Cinque “assolo” per una rapina dunque, che poi prende la forma – per restare sul piano jazzistico – di una jam session. Perché Lombardi – e questo è il grande pregio del film – sa come usare gli archetipi del genere senza farsi schiacciare dalla convenzione, per andare oltre il plot, per parlare anche di “altro”. E lo fa oscillando tra il thriller malinconico e la commedia nera, entrando e uscendo dai modelli citati e inevitabili, facendo interagire la banda scalcagnata dei Soliti ignoti e i rapinatori professionisti alla Sette uomini d’oro con il gioco al massacro e il cannibalismo sanguinario de Le iene di Tarantino. L’autore ha allestito un cast efficace che mette insieme i consumati Peppe Lanzetta, lo scrittore-attore qui in veste Kurzbrandiana e Antonio Pennarella e Gianfranco Gallo e i meno conosciuti Salvatore Striano, Salvatore Ruocco, Carmine Paternoster e lo stesso Di Vaio, facce vere e incisive qualcuno con storie di camorra alle spalle che rende credibile (grazie anche alla bella fotografia malinconica di Francesca Amitrano) la fragilità del sogno, del desiderio di arricchirsi con il grande colpo che lega cinque uomini solo per pochi giorni, cinque solitudini che si aggrappano disperatamente al denaro per riscattarsi dall’anonimato.

Ritratti abusivi di Romano Montesarchio, prodotto da Figli del Bronx e Rai Cinema in coproduzione con Minerva Pictures montato da Roberto Perpignani, è invece un documentario realistico su una periferia italiana e i suoi surreali abitanti: la comunità abusiva del Parco Saraceno. Gli abitanti del Parco vivono da almeno dieci anni come rinchiusi in un luogo infinitamente degradato e senza tempo, dove la vita scorre tra miserie e illegalità, sospesa tra violenze quotidiane e il sogno di una vita normale.

Il destino del Parco Saraceno è però segnato: nell’arco di qualche anno verrà infatti smantellato per far posto a un enorme porto turistico, simbolo del rilancio del territorio.

Ritratto corale e grottesco composto dai volti e dalle parole dei suoi abitanti, il film segue le vicende di questa varia umanità reietta e dimenticata che non ha altro posto al mondo, se non questo piccolo luogo abusivo nel sud Italia. Attraverso personaggi di straordinaria incisività, i classici “attori naturali” che raccontano con seducente teatralità le loro drammatiche storie, Montesarchio, documentarista casertano autore di altri film premiati in vari festival e trasmessi da emittenti televisive anche straniere, mette in cortocircuito le immagini dell’abbandono e del degrado del Parco e le parole delle vittime di questo con i bla bla rituali, le promesse poco credibili di politici di destra e di sinistra, la comunità considerata abusiva e l’”abusivismo morale” di chi è corresponsabile dello scempio. Storie che contemplano anche momenti tragicamente divertenti, personaggi (con i classici soprannomi che identificano caratteristiche e tic in una comunità ‘a guardia, ‘o sceicco, ‘o drink, ‘a lapide, ‘o ferraro, ‘a cinese

o ‘mericano, ‘o cantante, l’acrobata) che con la loro comunicazione diretta e le loro considerazioni

della post/anti politica (formidabile quello che parla di felicità e di quel luogo come “paese dei balocchi) ridicolizzano per contrasto le sempre più vuote parole e le sempre più ipocrite promesse dei politici di mestiere.