«E allora anch’io, come tutti, son disceso con la sensazione e con il pensiero, cioè con il corpo e con l’anima, ai fatti perentorii e banali della vita di guerra: e alla brutale immediatezza di questi fatti ho riconosciuto valore di causa, da poi che a volte essi vennero motivando tutta una serie d’altri fatti bruti e reali. (…) Ho sofferto: orrendamente sofferto: e delle mie angosce il 99 per 100 lo lascerò nella penna: il mio diario di guerra è una cosa impossibile, ognuno lo vede». Così scriveva Carlo Emilio Gadda in un brano del Castello di Udine (1934), intitolato appunto Impossibilità di un diario di guerra. Sul senso di quel titolo, così come sul rapporto di continuità e differenza tra il Giornale di guerra e di prigionia (ricavato dai taccuini degli anni di conflitto) e le opere successive di Gadda, la critica ha molto riflettuto: il diario può essere considerato come primo tempo di un itinerario narrativo coerente o si tratta piuttosto della registrazione di un disordine non ancora «organato» (il lemma ricorre nella Meditazione milanese)? In ogni caso, l’eredità dolorosa del conflitto appare come una camera magmatica, che ribolle nel sottosuolo riscaldando e scuotendo il terreno affiorante della scrittura. Sarà anche per questo che i fatti e gli scritti legati alla Prima guerra continuano a essere un fulcro degli studi gaddiani, quasi un’officina specializzata all’interno del grande cantiere che nel tempo ha visto all’opera una parte importante della filologia e della critica italiane: da Dante Isella a Giulio Ungarelli, da Gian Carlo Roscioni a Maria Antonietta Terzoli, a Paola Italia.
Da quell’officina esce ora un nuovo, importante volume, che prosegue la serie delle opere gaddiane diretta dalla stessa Paola Italia con Giorgio Pinotti e Claudio Vela: La guerra di Gadda Lettere e immagini (1915-1919), a cura di Giulia Fanfani, Arnaldo Liberati e Alessia Vezzoni (Adelphi «La collana dei casi», pp. 424, 96 tavv. f.t., euro 30,00). Il libro include una parte rilevante del carteggio di Carlo con i famigliari (la madre Adele Lehr, la sorella Clara e il fratello minore Enrico, caduto nel 1918 mentre era alla guida del suo aeroplano): 121 missive per lo più inedite, che vanno dal giugno 1915 al marzo 1919. Una cronologia iniziale colloca le vicende nel contesto degli eventi bellici, ulteriormente illustrati nell’ampio commento che segue le lettere; questo procede principalmente lungo tre direttrici: l’approfondimento di circostanze e dettagli storici; la ricostruzione di legami e rapporti famigliari; l’individuazione di riscontri e passi paralleli nell’opera gaddiana. In appendice si trovano una mappa dei luoghi di guerra e gli alberi genealogici delle famiglie Gadda, Ronchetti e Fornasini (ricordati nel carteggio). Alla Nota al testo seguono un cospicuo dossier iconografico (con le foto di Carlo ed Enrico sotto le armi e la riproduzione di appunti e documenti) e la Postfazione di Arnaldo Liberati, il nipote della governante Giuseppina, cui Gadda ha lasciato il suo patrimonio documentale. Proprio dall’Archivio Liberati di Villafranca di Verona provengono alcune delle missive qui pubblicate, che integrano la parte più consistente del corpus epistolare conservato nel Fondo Gadda dell’Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti» del Vieusseux di Firenze. Affidati dall’autore a Bonsanti negli anni quaranta, e restaurati dopo l’alluvione del ’66, quei documenti presentavano delle grandi difficoltà di decifrazione, affrontate meritoriamente dalle curatrici.
Ora che queste lettere sono finalmente disponibili, vale la pena chiedersi quale possa essersene la migliore fruizione. Questa sarà almeno duplice: da un lato infatti, come tutti gli epistolari, si tratta di testi ausiliari, che contribuiscono cioè al commento delle opere; dall’altro, la ‘trama’ famigliare e soprattutto la qualità e postura del Gadda epistolografo richiedono di trattare questi scritti come pagine d’autore. Osserva Liberati che il carteggio rivela «uno scrittore a tal punto padrone dei mezzi espressivi da costruire ogni lettera come un testo unico, stilisticamente connotato (…), dove spiccano di volta in volta la sua intelligenza del mondo, la sua capacità di osservazione, la sua perizia tecnica, lo sguardo acutissimo con cui abbraccia la topografia e la geologia dei luoghi». Proprio la descrizione dei luoghi, che spesso sembra espandere appunti del diario, è uno degli aspetti che danno una connotazione letteraria a certi brani epistolari: «L’azione attraverso i ghiacci è qualche cosa di meraviglioso, raccapricciante; e di inconcepibile a chi non è spettatore: senza la ferrea azione del comando e il sublime spirito di sacrificio di tutte queste truppe non sarebbe possibile non dico l’effettuazione ma neppure la concezione di queste vite» (dalla lettera di Gadda alla madre, datata «30 aprile 1916»).
Altre volte la natura diventa locus horridus straziato dalla guerra: «buche enormi, massi proiettati dovunque, massi minori che hanno inghiaiato i prati, pini divelti, stroncati» (30 giugno 1916). Descrizioni come questa, oltre che nella letteratura della Grande guerra, trovano una corrispondenza in alcune foto del dossier iconografico che ritraggono un Gadda ‘eroico’ contro lo sfondo degli alberi ischeletriti.
Ma oltre che un volume sulla guerra, questo è anche una specie di ‘libro di famiglia’, con tre protagonisti principali: Adele, Carlo ed Enrico. All’inizio del conflitto, i due fratelli sono entrambi iscritti al Politecnico di Milano, entrambi sono interventisti. Il maggiore viene chiamato alle armi il primo giugno 1915 e mandato a Parma per l’addestramento (da qui invia le prime lettere alla madre); il minore, volontario negli Alpini, raggiunge subito la zona di guerra: una differenza che è già un destino. Carlo ed Enrico scrivono alla madre in italiano ma spesso anche in francese, lingua privilegiata della comunicazione famigliare. Adele, che di francese era stata insegnante prima di diventare direttrice di scuola (e trasferirsi per lavoro, durante la guerra, dapprima a Modica e poi a Lagonegro), indica così il ‘codice’ della comunicazione, di cui fa parte anche una certa retorica patriottica (simile a quella in seguito imitata e parodiata dallo scrittore): «So che l’azione vostra si fa intensa e vigorosa» scrive Adele a Carlo il 31 ottobre 1915 «e riesce un’apoteosi delle recondite fibre dell’anima italiana». A questi accenti si alternano le comunicazioni pratiche (per esempio sugli indumenti e le scarpe per il figlio), speculari alle cure espresse da Carlo nel Giornale; e le raccomandazioni austere impartite come capofamiglia (il padre dello scrittore, Francesco Ippolito, era morto nel 1909): «i punti di demerito gravano sempre sulle promozioni» (22 luglio 1915). Se Carlo è l’epistolografo più dotato in famiglia, il ruolo di pivot nel carteggio è occupato da Enrico. Già nelle lettere, come poi sarà nella Cognizione, il fratello diventa un nodo di reticenze e tensioni. Carlo gli chiede di non alimentare le ansie della madre e della sorella raccontando loro i pericoli che affronta (con quell’ardimento che lo scrittore ammira e soffre, come termine di confronto e capo d’accusa rispetto alla propria inettitudine); non lo incoraggia ma neanche lo dissuade dall’unirsi all’aeronautica (scelta che gli sarà fatale); allude alla sua condotta economicamente disinvolta. D’altra parte, Adele e Clara nascondono a Carlo, ancora prigioniero, la morte del fratello; cosicché il trauma della scoperta, una volta rientrato in patria, si sommerà alla vergogna di Caporetto. «Non poter far nulla per lui» scrive Gadda alla madre nel gennaio del ’19 «non aver fatto nulla, non averlo visto e ora dovrei godere la vita?». Da allora in poi, una «inutile, monotona vita» lo attende, come scrive nelle ultime pagine del Giornale. Si può dire che la fine di Enrico segni quasi la fine della vita come evento, come avventura; tanto che all’autore di queste lettere e diari di guerra subentrerà un io biografico fermo nella volontà di restare nell’ombra.