L’Angelo Dioniso di Nanni Valentini, una delle ultime acquisizioni del Museo Diocesano di Milano, collocato così a mezzo piano dello scalone d’onore, sembra vestire i panni del custode silente ed ebbro che guida l’accesso alle Collezioni e alle mostre che si succedono nei locali superiori di uno dei Chiostri della Basilica di Sant’Eustorgio. Oggi “Chagall e la Bibbia”, nell’ultimo anno, prima “Terre” di Nanni Valentini e poi “Transiti e incontri” di Gabriella Benedini. Ciò, a conferma di una vocazione diagnostica e riflessiva, da parte del direttore del Museo Paolo Biscottini, in riferimento ad alcune tendenze, non sempre canonizzate, dell’arte contemporanea degli ultimi trent’anni del ‘900. Peraltro, legate sia ad un raffronto con i classici dell’arte del XX secolo sia ad un’idea espositiva che non disdegni di sfondare nei cosiddetti nostri “anni zero” e oltre. Proprio questo è il caso di Gabriella Benedini, ottantaduenne artista d’origine cremonese, che con “Transiti e incontri” ha suggerito un percorso espositivo che avvolge la sua produzione degli ultimi trent’anni ad un corrispettivo, antologico e biografico, impaginato nel catalogo della mostra. La conversazione che segue risale allo scorso mese di luglio.

Il suo è un racconto biografico per immagini. Da una parte le opere, dall’altra il lavoro, la fatica, l’officina dell’artista con tutto il suo reticolo di rapporti e relazioni. Critici, galleristi, committenze, musei, mostre. Questa mostra, “Transiti e incontri”, ne è la sua più manifesta dichiarazione?

Per l’appunto, il mio è un racconto per immagini del lavoro degli ultimi 30 anni. La mostra, infatti, parte dalla metà degli anni ottanta. Deliberatamente ho trascurato tutto quelle che precede quella data.

che però si recupera nel notevole inserto biografico del catalogo, quasi un libro nel libro …

Sì, è giusto che dica che dalla fine degli anni settanta ho perseguito una ricerca che fosse completamente autonoma. L’informale era finito e per conto mio, lavoravo sulla poesia e in genere sulla letteratura. Ritengo di essere rinata artisticamente proprio negli anni ottanta. Forse anche isolandomi per trovare quelle domande che sembravano allora come oggi assillarmi. Allora ci fu il graduale passaggio alla scultura. Comunque, mi fu cruciale la visione degli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara. Rimasi abbagliata dai mesi dello Zodiaco. Poco tempo dopo la stessa esperienza la ebbi a Mantova, a Palazzo Te. Cominciai a studiare i fenomeni alchemici. Sembrava che quelle immagini così potenti cominciassero ad attrarre il mio lavoro. Non credo che sia stato un caso che qualche anno dopo fui chiamata a lavorare proprio in quelle stanze così intrise di arte, scienza, alchimia. Da lì sono nati i lavori degli ultimi decenni; i cicli i Teatri della ‘melanconia’, i Pendoli del tempo, i Goniometri, i Sestanti , le Costellazioni, e le arpe, le arche, le scritture antiche e i libri-tattili e oggetto. Ma, è altrettanto giusto che si conosca il mio precedente percorso artistico.

A tal proposito gli inizi sono stati difficili oppure è riuscita ad integrarsi immediatamente nell’ambiente artistico nazionale?

Ho frequentato la Brera di Aldo Carpi. Ho tentato di agire nell’ambiente artistico milanese. Erano i tempi, tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, del cosiddetto Realismo esistenziale. Bepi Romagnoni e Mario Raciti erano tra i miei amici. Ma, era un contesto chiuso e maschilista. Si trovavano tra di loro. Non si perdeva occasione per saltarmi addosso e lo dico con il senso del tempo che è passato, allora però ero una ragazza non da buttare. Non veniva preso in considerazione nessun altro aspetto. A me, però, interessava solo l’aspetto artistico.

Ha praticato un femminismo ante-litteram …

Preistoria. Però, a metà degli anni settanta con il collettivo Metamorfosi, eravamo quattro artiste tutte con una loro specifica traiettoria artistica che fu alla base poi dello scioglimento del gruppo, affrontai con acquisita consapevolezza tutte le tematiche e i contesti sociali”al femminile”.

Tornando agli inizi. Era quello un periodo di grande trasformazione. L’Italia poverissima, uscita a pezzi dal tragico epilogo del ventennio nero, s’apriva alla cultura europea. Si cominciavano a conoscere le nuove tendenze artistiche, anche d’Oltreoceano e a ripensare le ormai esangui avanguardie storiche, filosofiche con l’esistenzialismo, e ancora gli scrittori che avevano rivoltato da capo a piedi il romanzo ottocentesco …

Avevo trovato lavoro come illustratrice. Disegnavo da sempre. Anche in Italia, mentre studiavo, disegnavo per riviste destinate ai ragazzi. Era un paese che aveva bisogno di tutto. Se ti rendevi utile, lavoravi. Poi è finita la pacchia. Andai a Parigi. E poi mi sposai. Cominciai con mio marito Giorgio a viaggiare. Mi era molto d’aiuto. Fu lui a suggerirmi di sperimentare con la cinepresa super8 con i quali ho realizzato “Doprenoi” e “Diutop”.

Viaggi che, a leggere le mete e i gli anni, paiono leggendari: Marocco, Africa nera, Pakistan, Afghanistan.Luoghi frequentati nello stesso periodo da Burroughs, Chatwin e Boetti. Per fare qualche nome.

Furono viaggi avventurosissimi, anche rischiosi. In auto, in treno, in posti impervi. Nel ’71 trascorremmo due in Afghanistan. Non sapevo di Boetti. Allora si viveva e si dormiva. Eravamo spericolati. Andammo in Pakistan, attraverso la Siria, l’Iraq, il su dell’Iran. Tra il ’75 e il ’75 dal Marocco, sbarcati a Ceuta da Marsiglia, attraversammo in macchina il Sahara, il Senegal e in treno fino in Nigeria. Non avevo seguito un percorso accademico, né riconoscevo maestri. Era mio interesse conoscere posti nuovi e come le persone di quei paesi si esprimevano. Poi, filmavo tutto. Esploravo ciò che poi è diventato per me un discorso ecologico che trovò ragione concreta nel film “Diotup”, che utilizza la materialità di oggetti di plastica, umiliati e pronti ad essere modificati in una scultura d’aria, embrione gigante sottoposto a trasformazione.

Dove fu girato il film?

Fu girato, tra l’inverno del ’71 e la primavera dell’anno dopo, in condizioni fortunose a Rosignano Solvay, con il serpentone d’aria che si espande grazie al banale trucco di gonfiare il materiale di plastica con le emissioni del tubo di scappamento della mia auto.

Dunque, pare di capire che il suo è stato un percorso originale, quasi appartato, sebbene consapevole di appartenere ad un mondo dell’arte come dire all’italiana.

Sono andata sempre avanti, debbo dire che la mia solitudine artistica è stata centrale per la mia ricerca. Ho dovuto attendere molto prima di avere spazio nei musei. Ma in tutto questo tempo, ho fatto incontri con persone straordinarie.

 

Nota Biografica

Gabriella Benedini è nata a Cremona nel 1932. Frequenta a Parma l’Istituto d’Arte Paolo Toschi e trasferitasi a Milano si diploma all’Accademia di Brera. Lavora nell’editoria per ragazzi come illustratrice, sul finire degli anni cinquanta va a vivere a Parigi. Tornata a Milano espone con la Galleria Bergamini e frequenta i pittori del Realismo esistenziale. Tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni settanta alla ricerca di un proprio linguaggio artistico viaggia molto, in Africa e in Asia. Nel1972 sperimenta il cinema realizzando due film in super 8 Doprenoi e Diutop. Con Alessandra Bonelli, Lucia Pescador e Alessandra Sterlocchi costituisce il Gruppo Metamorfosi. Scioltosi il gruppo sposta la sua ricerca verso la scultura. Cicli come le Storie della terra-Mutazioni (1977-1980), i Teatri della ‘melanconia’ (1984), i Sestanti (1992), le Costellazioni (1993). E poi installazioni come Il teatro di Persefone (1985) e le Arpe (1991). Dell’Estate del 2014 è la mostra “Transiti e incontri” al Museo Diocesano di Milano.