Che si trattasse di un poeta, un poeta vero e già fatto nella sua sconvolgente freschezza e vecchiezza (perché Gabriele sapeva bene che infanzia giovinezza e vecchiaia non dipendono in alcun modo dall’anagrafe) mi è stato chiaro da subito. Mi sforzo, ci provo davvero a ricordare la prima volta che l’ho conosciuto Gabriele Galloni, ma il bandolo mi sfugge, come se fosse accaduto in un tempo altro, probabilmente d’estate, la stagione di sole e caseggiati e campi al di là dell’abitato urbano in cui è uscito il suo primo libro di poesie, Slittamenti, salutato con stima e amore dall’amico Antonio Veneziani. Me lo regalò con una dedica che oggi rileggo, a distanza di qualche anno, trovandola vera come sono vere le cose crudeli e dolcissime di questa vita: Forse ci saremmo dovuti conoscere prima; l’importante è conoscerci adesso. Io ho conosciuto, con Gabriele Galloni, il poeta più luminoso e promettente della mia generazione; e tuttavia sbaglio dicendo “promettente”, perché Gabriele le promesse le ha già mantenute tutte, lasciandoci un’opera compiuta e ricchissima, disarmante nella sua bellezza, dolorosa nella sua onestà – e dio solo sa quanto bisogno ha la poesia di onestà e rigore. Ogni libro è stato per lui una sfida con il fuoco, dalla quale ne è uscito ogni volta vincente, fissando sulle pagine le coordinate per una terra che i poeti a volte raggiungono, rivelandone i misteri al mondo intero (cioè alla schiera fedelissima dei loro – magari a volte pochi – lettori. Molti, moltissimi e crescenti vorrei sapere invece i lettori e le lettrici di questo poeta, perché una esperienza come la sua è davvero irripetibile. Lo è per me, che l’ho sempre ammirato con orgoglio, amandolo come un fratello, cioè anche rispettandone le lontananze e i silenzi.

Parlo di esperienza irripetibile perché è stato unico il modo di vivere di Galloni: in mezzo a tanti, tantissimi giovani versificatori che si lasciano abbagliare dalla poesia rincorrendo la “vita da poeta” (questa espressione diabolica che non vuol dire assolutamente niente), Gabriele era uno di quei rarissimi poeti che vivono. Un ragazzo-poeta come lo è stato forse solo Corazzini, da lui molto amato, o Penna poeta-bambino, del quale i libri di Galloni ricordano la grazia, l’intuizione cristallina, rapida, da freccia al cuore, una malinconia che sa fare bene e sa fare male e a volte nutre o avvelena. Anche per questo credo, ora che non c’è più, ci sentiamo in molti più soli, perché lui ha avuto il coraggio che di solito manca: amare la poesia come si ama la vita, farle coincidere, pericolosamente dirà forse qualcuno, io dico straordinariamente, lavorare per un vocabolario più giusto, più ricco, più umano, capace di fare del ritmo, dell’immagine, del simbolo, della musica interna al verso un meccanismo perfetto di comprensione e compassione umana – a quanto sciacallaggio abbiamo dovuto assistere dopo la morte di un poeta! Vorrei comunque rassicurare chi, del tutto privo di rispetto e grazia, si è reso cannibale del dolore altrui: siamo in molti ad avere buona memoria e a non dimenticare.

Tre anni sono bastati a Gabriele per farci dono di alcuni tra i libri più importanti per la mia generazione poetica; oltre a Slittamenti, In che luce cadranno, Creatura breve, Sonno giapponese (sbagliano coloro che lo considerano un libro di micro racconti, perché anche questo lavoro è una raccolta poetica, che opta per la forma della prosa), e infine L’estate del mondo, più lo leggo più resto senza parole, penso a Gabriele perdendomi nei suoi versi indimenticabili e provo a capire come possa coesistere nello stesso corpo l’artigiano dei versi e il poeta tutto ispirazione e grazia di getto, interrogazione senza risposta, com’è sempre per i grandi – anche quando il grande in questione aveva appena 25 anni, o 60 o 15 o 100, tutte le età del mondo, e i capelli spettinati nel vento, e l’alito di gioventù e una dolorosa dolcezza che ha elargito generoso in dono tra noi.