La stampa internazionale, ma soprattutto quella italiana, raccontano il G20 come un’inversione di tendenza nella storia del multilateralismo recente, come il ritorno simbolico sulla scena di un know-how tutto italiano nella mediazione diplomatica. Capace di convincere e raccordare interessi molto divergenti, in discontinuità con gli ultimi anni.

La comunicazione mainstream è arroccata in questa narrazione fuorviante di pompose epocali decisioni, travisando la realtà e apparecchiando il cinismo dell’opinione pubblica, sempre meno convinta della svolta.

Si sono lette ad esempio nelle ultime ore analisi esaltate sulla global corporate tax, senza riflettere sul fatto che il tasso del 15% concordato dal G20 risulta appena superiore alle aliquote medie del 12% nei paradisi fiscali, sicché l’esito finale è quello che trasformare tutto il mondo in un grande paradiso fiscale a partire dal 2023 – la aliquota delle tasse sulle multinazionali è intorno al 27,46% in Africa, 27,18% in America latina, 20,71 in EU, 28,43% in Oceania e 21,43 % in Asia: la media globale si assesta intorno al 23,64%.

Sul clima, Draghi ha riconosciuto la sfiducia tra paesi emergenti e industrializzati sul terreno del riscaldamento globale, dirimente per la salute del pianeta e della popolazione mondiale. Consapevole che le decisioni del G20 hanno un enorme impatto sulla Cop26, Draghi ha speso parole puntute sulla necessità di rispondere alle attese del pianeta, di ingaggiare leadership collettiva, e adattare tecnologie e stili di vita al nuovo mondo da costruire: «Se vogliamo che sia la gratitudine, e non il risentimento, a segnare la risposta delle nuove generazioni».

Ma la dichiarazione finale del summit di Roma, che pure consolida l’accettazione dei risultati scientifici dell’Ipcc per contenere il riscaldamento climatico entro 1,5 gradi centigradi, dimostra la solita incapacità a tradurre nei fatti la radicalità delle scelte climatiche che questo tempo impone. Non fissa alcuna data per il conseguimento dell’obiettivo da parte dei più impattanti emettitori di gas clima-alteranti. Consente anzi ai governi che detengono l’80% del PIL mondiale e la più grande responsabilità per la devastazione del pianeta di conseguire il traguardo in base alle loro intenzioni e possibilità. Come se bastassero piccole modifiche incrementali a impedire il crollo del complesso ecosistema planetario, assediato visibilmente da punti di non ritorno che rendono ormai questo mondo inabitabile.

Senza obblighi vincolanti, e senza una rotta temporale cogente all’altezza, il G20 consegna alla Cop 26 di Glasgow declamazioni senza credibilità, perché ancora orientate alle vecchie ragioni della economia globalizzata piuttosto che a un improrogabile nuovo pensiero sul modello di sviluppo ecologico.

Infatti i governi del G20 proseguono, con le loro imprese a briglie sciolte, l’opera di erosione della biodiversità, l’incremento della deforestazione globale, gli accordi di libero commercio che permettono l’avanzare della catastrofe. I miliardi di alberi da piantare non saranno la foglia di fico con cui promettere futuro alle nuove generazioni. La fiducia intergenerazionale non è merce che si acquista a saldo al mercato dell’ultimo minuto. I leader del G20 non capiscono il messaggio radicale che viene dalle strade di Roma e della Scozia, percorsi che vanno popolandosi di rivolta che chiede con insistenza un nuovo paradigma economico, il superamento del capitalismo finanziario che genera patogenesi tanto visibili.

Anche sulla grande ingiustizia dell’accesso ai vaccini la dichiarazione del G20 mantiene il difetto di fabbrica di rilanciare impegni già assunti in passato e mai materializzati come la immunizzazione del 40% della popolazione entro la fine dell’anno.

Il punto 5 della dichiarazione conclusiva si aggancia a iniziative internazionali fallite come Covax, ovvero ad altre iniziative specifiche nate nel 2021 sulla scia della pandemia. Ma nella esuberante frantumazione di soluzioni il G20 si ostina a rimuovere la sola misura politica internazionale in discussione al WTO, la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale, assestando in questo modo una pesante ferita al multilateralismo.

Finanza, clima, salute: improrogabilmente, su questi temi, il G20 era chiamato a osare nuove visioni e finanziamenti vincolanti. Sebbene evocato per due giorni, il coraggio di un orizzonte di mondo nuovo, basato su regole globali intese al perseguimento dell’interesse pubblico e in grado di rilanciare la funzione dello stato sulle sfrenate ragioni dell’economia neoliberista, non si è visto, non c’è.

Non c’è ad esempio una sola parola sulla cancellazione del debito dei paesi poveri, una misura anch’essa indispensabile e legata a doppio filo con la preparazione per le prossime pandemie. I paesi creditori del G20 hanno accumulato un debito ecologico enorme verso il sud globale: i salti di specie degli ultimi decenni, e la predizione di spillover futuri, sono connessi alla necessità di affrontare la crisi globale del debito, così dichiarata dalla Banca Mondiale, che esige anch’essa un nuovo paradigma di gestione a livello internazionale.