La vittoria di Tsipras in Grecia e la frase pronunciata dal Papa a Cuba, accanto a quella grande immagine di Che Guevara, «non si servono le ideologie, ma le persone», mi hanno messo di buon umore. Mi sono chiesto se questa reazione è legata a quel tipo di sentimenti e di emozioni che generalmente si riconducono a parole come speranza e futuro. O non derivi piuttosto da una percezione più immediata di vissuti positivi in un momento del presente, probabilmente fugace.

Mi fa star bene vedere un uomo che mi sembra onesto e mosso da buone intenzioni come Tsipras vincere un’altra prova – pur con tutti gli interrogativi del caso – attorniato da molte altre persone che condividono la sua soddisfazione. Mi sembrano una cosa buona quelle centinaia di migliaia di cubani e cubane che ascoltano un altro uomo sicuramente ben intenzionato. Le sue parole e i suoi gesti, l’incontro con il vecchio Fidel Castro, ci dicono – senza dimenticare le persone ingiustamente perseguitate in qualche carcere all’Avana – che c’è del bene in quel presente che merita di essere vissuto e segnalato, raccontato.

Francesco incontrerà anche Obama, parlerà alle Nazioni Unite. Tsipras dovrà dimostrare che una battaglia per modificare in meglio il suo «memorandum», e per cambiare l’intero modo di governare l’Europa, è possibile.

Ecco che un presente «confortante» si trasforma immediatamente nell’aspettativa di un futuro incerto, angosciante. Domani saremo colpiti dalle foto e dalle notizie di altre vite spezzate nel cammino dei profughi? (Del resto nemmeno oggi queste immagini, queste tragedie, sono scomparse). E in Europa prevarranno gli Orbàn, o quanti affermano la giustizia e anche la convenienza sociale ed economica di una comune politica di solidarietà e di accoglienza?

Anni fa mi sono reso conto di quanto il mio modo di vivere la politica fosse condizionato da una ossessione del futuro. Oggi si denunciano le ingiustizie e i mali del mondo, si lotta duramente e ci si sacrifica, per un domani finalmente migliore (che forse vedranno solo i nostri figli…). In quest’ottica la realtà e la consistenza del presente – l’unica che in un certo senso viviamo effettivamente – era quasi completamente rimossa.
Naturalmente non sapremo che cos’è il presente senza costituirlo con la memoria del passato e i desideri (e le ansie) proiettati nel futuro. E forse – ci sono intere biblioteche sul tema – viviamo in un tempo in cui riconoscere la compresenza di queste tre dimensioni del tempo è particolarmente arduo, e siamo sollecitati a farlo quasi a ogni ora della giornata.

Penso – contro le tesi di chi critica la presentificazione di un tempo che azzererebbe il passato, impedendoci di guardare sensatamente al futuro – che abbiamo invece strumenti in più per condurre questa indispensabile disamina. Più informazioni, più sollecitazioni, più occasioni, più relazioni. Bisogna imparare a riconoscerle senza esserne sopraffatti.

Partendo intanto dalla nostra personale storia e memoria. Mi ha suggerito questo ordine di interrogativi – più o meno sconclusionati – un passaggio del bellissimo libro di Annie Ernaux Gli anni (edito da L’Orma). Dove si parla di una possibile «inversione dei ruoli» tra passato e futuro. «Con estremo narcisismo – dice di sé la scrittrice in un certo momento della sua vita – voglio vedere il mio passato nero su bianco e grazie a questo diventare ciò che ora non sono». E’ ciò che ha «alle spalle a essere diventato oggetto del desiderio, non ciò che ha davanti».

Un modo, per ognuno di noi, di ancorare alla realtà un’altra idea di futuro?